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È da poco passato mezzogiorno. In Piazza Goldoni la nuova fontana crea con le sue iridescenze una netta cesura tra il moto incessante del traffico e il quieto adagiarsi degli anziani protesi al sole di ottobre. Sull’autobus appena arrivato la gente sciama e si accalca, dai sacchetti della spesa si intuisce l’approssimarsi del pasto: c’è odore di sardoni freschi e fragranti s’ciopete, di prosciutto cotto tagliato a mano e di caffè appena macinato. Tra gli sguardi affastellati colgo due occhi sgranati: se non fosse per il ricamo di rughe che li incornicia, potrebbero appartenere ad un bambino. E carico di trepidanza infantile è anche il gesto della mano che accarezza il display della nuova obliteratrice: un piccolo rettangolino verde e luminoso che riporta la data e l’ora. El mato di anni ne deve avere parecchi, mi chiedo se ha vissuto in prima persona la “rivoluzione” di Basaglia o se ha avuto qualcuno che l’accudisse tra le mura di un piccolo appartamento, uno di quelli con la cucina dall’ampia cappa e le fievoli lampadine, le alte finestre affacciate sulla corte da cui riverberano i suoni delle stoviglie e le dediche di Radio Capodistria. Lui mi guarda ed esclama: “Xe le dodici e tredici!”. Gli sorrido ed annuisco, allora lui ripete felice più volte l’ora, poi, come uno scolaretto fiero di aver studiato la lezione, mi dice: “E tra poco sarà la mezza! …Dopo paserà anca quela, e per oggi no la tornerà più…doveremo spetarun altro giorno!” Mi fissa in cerca di approvazione, poi sussurra piano la sua verità: “Le ore sempre le passa, ma sempre le torna e, se a Dio ghe piasi, doman saremo ancora qua a vardar l’ora…”
Già, giorno dopo giorno, tutti ci facciamo affascinare dagli oggetti fatti per imbrigliare il tempo: un quadrante, due lancette, una manciata di numeri, negli orologi l’apparenza più sobria cela insospettabili perizie ed intrecci pulsanti.
Ore, minuti, secondi… se non ci fossero cambiamenti di stato sarebbe impossibile misurare lo scorrere del tempo, ci resterebbe solo la sensazione del tempo intuitivo, scritto dagli infiniti istanti del passato che come rivoli riempiono la geografia del presente; un tempo cesellato dalla memoria di lontani tepori e sottili nostalgie che svaporano come zucchero filato; l’impaziente tempo teso verso il futuro, o il carillon di cuori allacciati, di palpitanti attese e teneri abbandoni.
Così ricorriamo agli orologi. Sono divenuti oggetto da collezione, feticcio, gadget o status symbol: sono moda, arredo, architettura, hanno il cuore retrò del piccolo gioiello o le forme giocose e sgargianti della plastica.
Ed hanno l’imponente classicità dei quadranti che sovrastano le piazze e scandiscono, attraverso il ciclo delle stagioni, il ritmo lento della passeggiata in centro e quello frettoloso di chi cerca riparo dalla bora. E, con il mutare della luce, trasformano i loro materiali: le gocce d’oro delle giornate soleggiate sfumano nel piombo della pioggia sferzante; si caricano delle fiamme del tramonto, fino a scintillare come seta delicata nel velluto della notte.
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