PHILIP K DICK CONFESSIONI DI UN ARTISTA DI MERDA
In questo romanzo alquanto strambo Philip K. Dick ci descrive un tenero, e al tempo stesso alienante, quadretto famigliare, dove la matrice autobiografica sembra guidare la penna dell’Autore. La Contea di Marin (CA) si affaccia sulla baia di San Francisco,
ed è uno fra i luoghi più belli e selvaggi della California, dove si è col tempo creata una comunità di ricchi imprenditori e manager del campo immobiliare, dediti alle festicciole col barbecue, all’acquisto di macchine costose, e di villini lussuosi dove vivere con le loro mogliettine stile Doris Day, dedite a passatempi colti, attività filantropiche e trisettimanali visite dal proprio psicoanalista, se non dal giovane amante di turno.
Il quadro in cui la storia si inserisce è questo, ovvero, un territorio da sogno abitato da gente ricca e un po’ annoiata, oltre che grezza e ignorante, che non sa come spendere tutti i propri soldi, e allora inizia a coltivare nevrosi, paranoie, istinti omicidi, tanto per condire coi soliti ingredienti noir-cinematografici un american dream giunto al suo nefasto capolinea sulle più remote propaggini di una west-coast idilliaca, lontana anni luce dai miasmi proletari e promiscui di una megalopoli come Los Angeles, molto più a Sud come latitudine, ma anche come stile di vita. Se Bukowski non avrebbe mai potuto ambientare una delle sue storie di ordinaria follia a Marin, Dick non trova in Los Angeles
quell’ordine borghese e pacioso, se non piatto, di vite decorose e normali, che a un tratto si diverte a stravolgere e sovvertire con improvvise ondate di follia paranoide. L’America qui narrata è quella squallida degli anni’50, e il romanzo in questione si situa in una fase creativa di Dick in cui egli desidererebbe abbandonare la fantascienza. Nasce, dalla convergenza di queste due problematiche, un tessuto narrativo tutto particolare, un’estetica del basso profilo, ovvero, della merda, quale elemento che potrebbe rigenerare le sorti dell’arte americana, e dell’artista Jack Isidore, protagonista della vicenda, un marginale, un deficiente che indaga i fenomeni naturali con spirito empirico, avendo come modello di studio la raccolta di “insoliti fatti scientifici”. Parodia della scienza – che Dick vorrebbe tradire – e della società americana, in bilico tra cielo e inferno, impantanata in una quotidianità grigia e monotona, senza prospettive al di là dello shopping serale o di qualche travolgente avventura extraconiugale. C’è molta tragedia in queste pagine, ma descritta con la tecnica della farsa grottesca. In fondo, ciò che differenzia tragedia e farsa è solo una questione di stile, di accenti, e Dick, da grande scrittore quale è, sa mettere sempre gli accenti al posto giusto.
©, 2007
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