PHILIP K. DICK OCCHIO NEL CIELO
“Occhio nel cielo” potrebbe essere considerato un romanzo di formazione? Forse sì. Vi sono contenuti diversi elementi che me lo fanno pensare, come, ad esempio, la contrapposizione tra illusione/sogno e realtà, non esente da una certa connotazione morale data all’intera storia. Come gran parte degli scrittori americani, eredi del puritanesimo, Philip K. Dick non poteva esimersi dal fare la sua parabola morale. La vicenda, allucinatoria, assurda, fantasmagorica e completamente visionaria, ci allontana dall’impianto morale che la sottende, eppure esso è sempre presente, guida costantemente le dita di Dick nel battere sui tasti della sua macchina da scrivere, nell’atto di dare vita a uno dei più belli – e completi – romanzi del secondo ‘900 – senza alcun dubbio da parte mia nel dirlo. Se si pensa che, qui in Italia, in quegli anni (1955), ci si stava appena tentando di liberare dai miasmi fascisti della prosa d’arte, e si continuava a scrivere nel cosiddetto bello stile storielle da poco, inconsistenti e provinciali, Philip K. Dick non posso non chiamarlo “genio” in senso assoluto, per la capacità di anticipare di interi decenni il destino dell’Uomo moderno, anzi, dell’Uomo Cyber.
La parabola di Dick, credo, deve essere stata lunga, prima che questo grande scrittore potesse arrivare a scrivere un tale, aberrante e illuminante romanzo. Ad iniziare dal Mago di Oz e da altre apparentemente innocue letture giovanili. Il nucleo resta quello: la favola, una buona favola ben scritta, e niente altro. Non si chiede altro a un grande scrittore, se non idee e semplicità. E tanta più semplicità, quanto più grandi sono le sue idee.
Una dimostrazione cui doveva assistere il pubblico della cittadina di Belmont (California) si trasforma in esplosione nucleare, e ciò scaglia otto persone in una strana dimensione, in cui, via via, gli otto sono costretti a vivere nei Mondi distorti, psicotici, paranoici, di ciascuno dei loro compagni di avventura. Una congiuntura spaziotemporale (parole mie) fa sì che l’inconscio, il mondo interiore di tutti gli otto personaggi – presenti alla dimostrazione – uno alla volta, prenda il posto del mondo reale, e, come in un passaggio da una scatola cinese all’altra, tutti e otto debbano subire varie forme di dispotismo. Da quella del primo di questi mondi, dominato da una divinità di matrice grottescamente islamica, che commina premi generosi e castighi terribili a seconda di come gli gira, e di quanta devozione riceva in preghiere e atti pubblici di adorazione, secondo un carattere volubile e imprevedibile, che ne fanno una divinità poco credibile, ma molto temibile e prepotente. Il mondo che agli otto tocca poi subire, è quello di una puritana, che decide di abolire tutte le cose immorali, sgradevoli, brutte, comprese le persone, e che si autoabolirà nel parossismo finale abolendo l’intero universo. Segue quello di una donna infelice e sessualmente insoddisfatta, che trasforma il mondo nelle sue paure persecutorie e voraci da un punto di vista orale: una casa che rischiava di divorarli tutti, utensili, come coltelli e tostapane, che si rivoltavano contro a chi li usava (e qui mi viene in mente il film di Stephen King “Maximum Overdrive”, nel quale oggetti di uso comune si trasformano nei peggiori nemici delle persone). A questo punto gli otto navigatori di questo spazio/tempo impazzito, si ritrovano gettati nel mondo dilaniato dalle lotte operaie e dal terrore del comunismo. Tutti pensavano fosse colpa di Marsha, la moglie del protagonista, accusata, all’inizio della vicenda, di essere una comunista. Vari colpi di scena, però, riportano gli otto avventurosi superstiti nel luogo dell’incidente, con qualche graffio e la voglia intatta di ricominciare la loro vita nel mondo reale. Ottimismo tipicamente americano? Sì. Anche se in parte offuscato dalle idee politiche sul comunismo che ottenebrano decisamente il finale del libro, dando alla storia un tono mesto, guastando l’ happy end, come forse era nelle intenzioni dell’Autore, tra cui quella di far trasparire le sue simpatie politiche (ma la mia è solo una supposizione).
©, 2007
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