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Già Thomas Mann aveva messo in luce quanto il “tempo” non fosse solo quello socialmente condiviso tramite l’uso dell’orologio, ma qualcosa di “soggettivo”, la cui scansione sfugge ad una misurazione “socializzata”, rientrando più nel vissuto della persona, nella sua Storia e Biografia, a seconda delle emozioni, delle esperienze, degli affetti esperiti.
C’è un tempo, che sembra essere immobile, e congelato. E’ il tempo del vissuto depressivo. O della dimensione manicomiale, o di tutte le cosiddette “Istituzioni Totali” (pre basagliane). Qui, come nel celebre sanatorio de “La montagna incantata”, il tempo scorre secondo scansioni lente, quasi rarefatte, sino ad assottigliarsi, sino a scomparire, sino a non esistere più.
Nel depresso c’è una predisposizione, già studiata da Ludwig Binswanger, a esperire più il tempo passato, una inclinazione che gli impedisce di vivere il presente, e di proiettarsi nel futuro (Ludwig Binswanger – “Melanconia e Mania”). Il passato lo insegue, e lo soffoca, sino a consumare, erodere il presente e il futuro. Ma vi è una sensazione ancora più dolorosa, più terrificante, quella che il tempo sia improvvisamente imploso, non esista più. Le possibilità, tutte le possibili strade da percorrere, sembra siano diventate vicoli ciechi. Muoversi, è impossibile, progettare, desiderare, lo sono altrettanto, perché il tempo è giunto al termine.
Il paziente, in simili situazioni, tende a disancorarsi dal setting terapeutico. A disinvestire. E’ un momento difficile e tragico per la terapia. Che potrebbe vedere la sua cessazione improvvisa. Sarà compito del terapeuta inseguire il paziente nella sua fuga, stargli “alle costole”, comprendendo che il disinvestimento è ancora parziale, che la propria figura potrebbe ancora giocare un ruolo decisivo nel rivoltare la sorte del setting, se si fa vedere ferma, ma accogliente anche delle istanze distruttive e regressive del paziente.
Una presa d’atto, da parte del terapeuta, che il tempo è finito, innesca quella empatia e “amicizia” che potrebbe riconquistare la fiducia del paziente. Aderire alle sue istanze, di fuga, di disperazione, ma per pilotarle verso un “altrove”, dove il tempo possa ancora germogliare, è quello che, in fondo, anche inconsapevolmente, il paziente chiede al proprio terapeuta.
Come nel concetto di “Ripresa” (Kierkegaard), il paziente perde il Mondo, il Tempo, poi lo ritrova, e nasce una seconda volta, rinasce al Mondo, agli affetti. La precedente esperienza depressiva della perdita, della Morte, della scomparsa del Tempo, è decisiva nel fornire al soggetto la percezione di essere rinato, di essere stato nuovamente gettato-nel-Mondo (Sartre), e perciò, di essere molto più consapevole del proprio ruolo nel Mondo, della propria posizione fra le cose, le persone, gli affetti. Gli affetti, da ombre evanescenti e prive di contorni durante l’esperienza depressiva, divengono improvvisamente Oggetti dai contorni più definiti, e il dolore, la sua esperienza, scampato il pericolo della Morte, viene circoscritto e sottratto alle sue fantasie nevrotiche di catastrofe. L’esperienza del tempo si fa più concreta, meno catastrofica, e angosciante. La Morte – il destino ultimo – avendo già in parte sperimentato una morte “surrogata”, viene maggiormente accettata, con sana rassegnazione; il Destino è più forte dell’Individuo, e quest’ultimo può vincere solo con la resa, incondizionata. La resa è un concetto che toglie potenza al dolore e alla sofferenza, e ci rende vittoriosi.
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