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Pinacoteca di Brera: Alberto Savinio – La cité des promesses

ASCOLTO IL TUO CUORE CITTA’ elzeviro

ASCOLTO IL TUO CUORE CITTA’ elzeviro
foto di Andrea Cherchi
vedi anche: Stormi d’Ottobre
1)
Città, ascolto il tuo cuore. Le parole di Alberto Savinio risuonano in me e confermano il mio amore per la metropoli. Per tram e metropolitane – vascelli che mi trasportano da un capo all’altro di questo mare interno – per strade persone bar negozi magazzini, che segnano il ritmo di una partitura di Varèse. Tu città sei ardita ma anche dolce, sai entusiasmarmi ma anche impaurirmi coi tuoi rumori assordanti, con la tua ressa, con l’eccesso di velocità delle tue automobili, con gli stupri e gli attentati, le rapine e gli scippi. Il più delle volte sai però rapire il mio sguardo con un improvviso aprirsi di giardini oltre cancelli di ville incantate, con balconi adorni di fiori in modeste abitazioni dove la gente conduce quietamente e onestamente la sua esistenza, con vetrine di negozi defilati ben composte di oggetti disposti con amore, con le luci della sera. E poi – anche se di rado – con la parola gentile del tranviere, e con i gesti come quello di un vecchio barista, che un giorno volle offrire a me mia madre un bicchiere di vino perché gli eravamo simpatici. Tu città sei imprevedibile, sei capace di stravolgere le aspettative e i programmi, sei capace di incantare come di uccidere.
Alberto Savinio
Avendoti a lungo ascoltata, posso dire di conoscere ogni tuo palpito di gioia o di sofferenza, e quando tu gioisci, io gioisco con te. Ora come non mai sei assediata e maltrattata, soffri di essere insozzata e trasformata in teatro di frequenti atrocità. Ma forse, ora come non mai, sei una vera città, come quelle dei film americani, bella, crudele e appassita reggente di bordello, e non più fanciulla innocente. Ora – tu città – hai perso il dono della giovinezza, e ti avvii ad essere più saggia e disincantata, a piangere i tuoi morti, ma anche a lasciarteli indietro senza tanti sospiri. Tu città vai avanti, macini giorni e anni, e ti indurisci sempre di più, e ti fai sempre più bella, di una bellezza cosparsa di rughe, una bellezza umana e viziosa, da fumatrice, da giocatrice d’azzardo. Eppure, anche nel cuore più indurito di te, città, ascolto il palpito di un cuore giovane, che ancora conosce l’amore e lo slancio. Un amore, uno slancio resi più faticosi dall’età, ma non per questo meno intensi. Ricordo ti te, città, un tesoro, un barbiere, un anziano uomo del Meridione venuto su dalla Puglia, che sapeva usare rasoio e pettine come un artista. Per poche lire, sapeva farmi tagli hollywoodiani, dare ai miei capelli quell’estro che una vecchia mano esperta era in grado di creare con pochi colpi di forbice. Ora, nella città, scomparsi i vecchi barbieri, sono arrivati gli hair-stylist. Costoro non hanno grazia nel rasoio e nel pettine, ma solo il dubbio pregio di sfigurare la tua testa. Si fanno pagare molto, ma non valgono un solo dente del pettine del mio vecchio barbiere pugliese. La città conserva, nascosti in luoghi defilati, tesori come questo barbiere. Tesori che uno ad uno scompaiono. La loro scomparsa ti fa sentire un po’ smarrito, perché sai con certezza, nel caso del barbiere, che nessuno, mai più, ti taglierà i capelli come sapeva fare lui. Il tempo avanza e fa uscire, una ad una, le pedine dalla scacchiera. La città però sembra eterna nel suo divenire, mutevole e mimetica. Cambia, si ammala, sta per morire, ma alla fine non cede, anzi, come un vampiro di anime, fa dei suoi morti il suo alimento, in eterno.
Alberto Savinio – La notte sul borgo
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2)
Gli stormi d’ottobre attorno al grattacielo Pirelli, che qui a Milano affettuosamente chiamiamo “Pirellone”. Quelle belle serate d’autunno spazzate dal vento, dai primi freddi secchi. Quell’attesa di qualcosa di magico che si fa strada lungo le vie, negli sguardi della gente. Le ombre della sera e le luci dei bar. Le luci amichevoli sui palazzi di vetro. E gli stormi. Quegli incredibili stormi d’uccelli migratori, che ogni ottobre, per un paio di settimane, animano il cielo attorno al Pirellone, facendogli corona, creando attorno al suo alto collo delle sciarpe che si aprono, si richiudono, si sfaldano e si ricompongono in una magia di forme effimere e veloci, portate dal vento. Ogni anno attendo ottobre, e attendo i suoi stormi. Cosa veramente attenda, non so. Non so, in verità, cosa per me rappresentino gli stormi di ottobre. Essi scandiscono l’Anno. Per me – e forse anche per altri – sono una ricorrenza, personale, simbolica, oltre che naturale. Simbolo di cosa? L’anno scorso erano simbolo del mio amore per una ragazza. A fine giornata, ci trovavamo a bere un drink al Bar New York. Un bel bar, in stile americano, grandi vetrate e insegna azzurrina, che si illumina nella notte sul marciapiede con una luce invogliante. Dopo i miei lunghi viaggi in metrò, sbucavo in superficie alla Stazione Centrale. Compravo qualche libro a 1 euro in una bancarella di slavi. E portavo il mio “bottino” al New York, dove lo mostravo al mio amore. Ci scambiavamo i giornali, i free-press presi in metrò. Leggevamo qualche notiziola, bevevamo il nostro Rabarbaro, fumavamo una sigaretta nella veranda riscaldata. E sopra di noi c’erano, a volare, a vegliare sui Nostri destini, quelle migliaia di uccelli migratori, quegli stormi d’ottobre. E’ passato un anno. La magia si ripete. Ma questa volta non mi godo pienamente la visione dei miei stormi. Mi manca un’anima sensibile, quale era quella della ragazza che amavo allora, con cui levare lo sguardo al cielo, e condividere, stringendoci, la stupenda visione. Transito poco in quella zona, quest’anno. Da lontano guardo gli stormi. Quasi non avendo più il diritto di andarvi sotto, a goderli nella loro potenza, che si fa anche sonora: migliaia di uccelli che cinguettano in sincrono. Svicolo, evito. Alzo la testa, e osservo da lontano, quasi a volermi fare una ragione che quel prodigio, ora, non mi appartiene. E mi dico: avessi una donna, con cui ammirare gli stormi. E poi mi dico: non sarebbe la stessa cosa. L’incanto non mi appartiene più. Devo accettare il mutamento, l’impietosa lezione della vita, della perdita. ASCOLTO IL TUO CUORE CITTA’. Lo ascolto nel ricordo, nel rimpianto. Ma lo ascolto anche nell’attesa di domani, e dopodomani. Le tue strade, i tuoi marciapiedi, come un fiume eracliteo, cambiano e sorprendono, nel divenire continuo. Così come cambiano i cuori che ti percorrono: senza le persone, saresti solo un cumulo di macerie, di belle architetture, di inutili monumenti. Ascolto il tuo cuore, città, perché amo i miei simili, perché sono un animale sociale, amo e soffro nella relazione, nello stare tra gli uomini. Quando cammino lungo un marciapiede, quando – chiuso in un vagone affollato – ti attraverso in metrò, mi rendo conto quanto forte sia il legame che mi unisce agli Uomini. Anche uno sconosciuto rappresenta una parte che mi appartiene. Nel singolare di ognuno di noi, è racchiuso l’universale della totalità degli esseri umani. E allora ecco, forse, cosa rappresentano quegli stormi: gli uomini, la totalità che si aggira nell’universo. E che forse non si dissolve nemmeno con la morte. Presagio di eternità.
Alberto Savinio – Tombeau d’un roi maure, 1929 – olio su tela, Patrimonio Unipol Gruppo Bologna.
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3)
omaggio a Gian Luigi Falabrino (1)
Il cielo promette neve. Nuvole basse e grigie premono sui cornicioni, dai quali si levano pennacchi di fumo. Torri d’acciaio di gru di cantieri si contendono la fuga verso il cielo, è una visione che preme il petto e soffoca, che emoziona e atterrisce. Siamo così piccoli, sotto tutto quell’acciaio. Eppure, persone minute come formiche laboriose, animano l’acciaio di afflato umano, dando così forma a nuove Opere dell’ingegno degli uomini. Ognuno attende al proprio compito, con la precisione di chi – ingranaggio in un tutto – cerca di dare il meglio. Camion enormi sterzano nell’incrocio, sfiorando auto e passanti. Al tempo stesso un fronte di auto è fermo dalla parte opposta da cui mi trovo io. Contemporaneamente la banda dei server si satura di impulsi in tutte le direzioni dell’etere e delle fibre ottiche, anche sotto la metropolitana grazie ai nuovi ripetitori, e la metropolitana smista migliaia di vite in varie diritture. Un tutto che sembra un meccanismo ben oliato, così è la Milano che sta nei Nostri cuori e nel Nostro immaginario. Eppure, basta un niente, a mandare in tilt questo perfetto meccanismo. Siamo sospesi a quell’attesa del fato, mentre i vagoni del metrò corrono sottoterra. Sappiamo che basta un niente, a mandare in tilt il meccanismo, a produrre morte, sfacelo, a trasformare i cantieri dell’ingegno umano in cimiteri di morti bianche. Ma siamo appunto sospesi al fato. Incrociamo le dita, e andiamo avanti. Vediamo nello sguardo del passante sconosciuto la stessa attesa e paura che è in noi. Toccherà a noi, a lui, a chi? A qualcuno toccherà. Il meccanismo purtroppo si incepperà. E sarà un disastro. Ma intanto non ci pensiamo, ci godiamo l’eternità di ogni attimo, raccogliamo il free-press come rituale delle 17 e 30 dalle mani dell’addetta peruviana, e ci concediamo un caffè in un bar dalle finiture dorate. Attimo fermati, sei bello, ci diciamo, mentre visioni faustiane scorrono come scie di umanità sul marciapiede, fuori dalla vetrata del bar. Ci stringiamo nella Nostra piccolezza, ci scaldiamo nel Nostro giaccone al riparo dalla vastità di un Cosmo che ci sfugge nella sua enormità, che ci disorienta. Nel momento in cui ci accorgiamo di ciò, cerchiamo un riferimento, guardiamo l’ora sul display del cellulare. Un atto irriflesso, che ci conferma come uomini, quasi come animali. Animali che hanno bisogno di una guida, di un padrone, di un ritmo costante, di uno steccato: perché oltre lo steccato c’è il terribile infinito. Usciamo dal bar, e ci ritroviamo tra gli uomini, in questo enorme recinto sociale che è la metropoli. Lasciamo il Cosmo al suo posto, lassù oltre i tetti, e ci ripariamo al cospetto dei Nostri simili, cui siamo uniti da quella medesima sospensione del fato. Il ventre sotterraneo della città brulica di vite in movimento. Che sfogliano giornali, compulsano cellulari, posano sguardi stanchi sui cartelloni pubblicitari alla ricerca di un aggancio col magico mondo delle promesse. Promesse spesso smentite, truffe spesso spudoratamente perpetrate. Ma la città offre di tutto, sta a noi setacciare con finezza le pepite d’oro in mezzo al fango. Il setaccio deve essere molto selettivo. Intanto il film scorre. Uno spot pubblicitario. Un frame di vite sospese al fato. Uno storyboard che ci parla delle Nostre mai placate speranze. Il metrò corre. Traballa e sferraglia. Ci porta molto lontano. Come Emilio Salgari, ci basta stare nella Nostra città, per agognare l’infinito. Perché nessun luogo è lontano. Ripensi a una telefonata. A un bidone che hai dato. Pensi a quella persona. Cosa è quella persona, ora che la pensi? Una immagine? Un pensiero? Eppure lei esiste. E’ esistita nel momento in cui ricevette la tua disdetta. Che ricevette la delusione. Forte come una piccola morte. All’altro capo della fibra ottica, lei esisteva. Ed esiste pure ora. Eppure, in quel momento, lei era solo una estensione del tuo telefono. Nel buio del tuo essere, non cogliesti la sua umanità. Un numero, un codice, cui inviare un sms. Per liberarti di una tua paura. Ora, lo sai, quell’invio ha prodotto una sia pur piccola, morte. Che ora si abbatte su di te. Ti torna indietro, come un sms che si è perso nella rete misteriosa dei server, e ora ti scuote l’anima, rivendica la sua carnale verità. A volte la tecnologia ci sottrae una quota di responsabilità, ci rende meno umani. Eppure, è così bella, così utile. La si dovrebbe usare in maniera consapevole, sempre più consapevole. La città ti avvolge, con immensa misericordia, mentre la pioggia si trasforma in nevischio. Respiri questo, della città: atomo fra tanti atomi, tu sei (1).
(1) L’espressione “atomo fra tanti atomi” la dobbiamo a Gian Luigi Falabrino. Gian Luigi Falabrino è nato nel luglio 1930 a Genova – triestino di adozione. Sua è la raccolta di poesie “Elogio della vita associata” (1973), che contiene la poesia dal titolo “Ascolto il tuo cuore città” tratto da Alberto Savinio. L'”Elogio” è stato ripubblicato in “Kugluf e altre poesie” (2008).
Alberto Savinio – Gomorra
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4)
Si tingono di nero i marciapiedi, lustri di pioggia battente. Le insegne al neon di bar e negozi si riflettono sull’asfalto bagnato, ondeggiano e vibrano nei rivoli e nelle pozzanghere. Che le macchine in corsa sollevano in onde che coprono i piedi dei passanti. E’ una sera di pioggia, e osservo le scritte degli alberghi davanti alla Stazione centrale, guardo i fanalini rossi delle macchine in fuga, le facce della gente alla fermata dell’autobus. Faccio conoscenza con un uomo giovane, dall’accento siciliano. Come me, anche lui fuma sotto la pensilina, aspetta con pazienza l’autobus che, come ogni sera, si fa aspettare troppo a lungo. Paragoniamo questa linea con altre, ed entrambi conveniamo che è una delle peggiori. Il giovane uomo è a Milano da agosto, prima stava in Svizzera, dalle parti di Zurigo. Tecnico informatico. Ama il suo mestiere. Ha due figli. Cita con orgoglio il nome della ditta per cui lavora, una grossa compagnia aerea low-cost. E’ a Milano da pochi mesi, eppure sembra già un milanese perfettamente ambientato. Forse – non glielo chiedo – ama anche lui questa città. Anche lui ascolta battere il cuore di questa città. Un cuore come il suo, il cuore di tanti migranti. L’autobus arriva, si riempie. Il nuovo amico mi offre il posto vicino al suo. Discorriamo, mentre si avvicina la mia fermata. Lo saluto, gli stringo la mano, mi approssimo alla porta. Nella ressa mi volto, e vedo ancora per un momento il suo viso stanco, faccia di migrante, una faccia che presto dimenticherò, ma che andrà a sommarsi nel puzzle che compone il volto di Milano. Una città dai tanti volti, dalle tante braccia, umanità dispersa in cammino verso un domani, che a volte appare oscuro.
Alberto Savinio – L’île du trésor – 1928
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5)

Nelle albe livide i tir scivolano rumorosi di pesanti carichi sull’asfalto, lungo le arterie periferiche e nelle tangenziali, facendo tremare i vetri dei bar dove il primo caffè si beve con la mente ferma a prospettare l’imminente fatica, preoccupata del ritardo, o del capo che rimbrotterà. Non è mai ferma la città, la notte è appena passata, ma anche in quelle plaghe oscure e desolate, non si è mai fermata del tutto. Poliziotti e lettighieri l’hanno percorsa da Nord a Sud, in tutte le direzioni, hanno raccolto moribondi e criminali, e nei prontosoccorsi degli ospedali non un minuto ci si è fermati, a correre contro il tempo e la morte. Il cuore della città batte a tutte le ore, e forse più di notte che di giorno, quando un esercito invisibile e silenzioso di professionisti veglia sul Nostro sonno, ci protegge da tanti incalcolabili mali. E anche i panificatori sono già al lavoro, a fare quelle michette che troveremo sulla Nostra tavola, cosi come all’ortofrutticolo schiere di scaricatori lavorano al freddo per assicurarci frutta e verdura fresche. Nelle redazioni dei giornali si chiude l’edizione di domani, che uscirà per tempo con le notizie che, sino all’ultimo minuto, i cronisti hanno raccolto per le vie della città. Qualcuno finirà in prima pagina, per aver accoltellato moglie e figli, in quelle ore notturne c’è chi fa l’amore e chi invece uccide. I Nostri vicini sono persone perbene, ma forse, a due isolati di distanza, si sta consumando una tragedia. La follia coglie impreparati, la morte ci tende agguati imprevedibili. Ma la città non si ferma, non si spaventa di questo. Tanta è la morte, quanta la vita che essa produce. Nuovi nati vengono alla luce, a tutte le ore, e noi preferiamo immaginare accada all’alba, così come nasce il nuovo giorno, così come esce l’ultima edizione del Corriere. Città, sono qui ad ascoltare il tuo cuore, mentre la notte scivola via sui tasti del mio pc.

Alberto Savinio – Scenografia per l’Armida di G. Rossini – 1952

 

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6)

Milano, città multietnica. Milano, città di passaggio. Milano, orgoglio della Resistenza e del Proletariato. Ora tu, Milano, sei davvero una vecchia, bella Signora che si è appena rifatta il trucco. Ma con mano tremante. Qualche sbavatura agli angoli degli occhi. Qualche lacrima ti scende sulle guance. Milano, ascolto il tuo cuore. Milano, tu uccidi. Uccidi con crudeltà ed efferatezza. Una volta accoglievi. Ma perché, vecchia signora, ti sei così indurita? Eppure, Milano, io ascolto il tuo cuore. Cuore che ancora batte, caldo e amorevole. Lo ascolto sui marciapiedi. Lo ascolto battere nel cuore del migrante, che pure ti ama. Ti ama anche se calpestato e oltraggiato. Lo ascolto sui sedili del tram, che ti attraversa da un capo all’altro, raccogliendo brandelli di umanità in cerca di una minima certezza per tirare a sera. Umanità che ti guarda, dritta negli occhi. Magari da sopra l’orlo della pagina di un free-press, uno sguardo fugace, ma intenso. Potersi amare, con una ragazza cinese, in quel fuggevole sguardo di un attimo. E poi scendere, da quel tram: addio. Dici addio a quella apparizione, a quella nuvola di profumo e amore. E ripiombi nel caos, nella ressa del marciapiede. Così, camminando, urtandoti, scansando altra umanità, riprendi ad ascoltare il battito del cuore della tua città. Brandelli di vita, nuvole di ricordi si raccolgono nella tua mente, mentre mangi un kebab. Certo, un occhio va alla borsa che sosta ai tuoi piedi, nella città che pure ami ci sono ladri e stupratori e criminali pronti a ferirti, a derubarti, ad ucciderti. Ma il kebab è buono, e quello yogurt salato che i turchi chiamano Ayran va giù che è un piacere, e tu, tu ripensi ai tuoi brandelli di vita, li raccogli e li metti insieme. Ti ci asciughi le lacrime. Paghi il kebab ed esci. E sei di nuovo sul pulsante marciapiede. Dove il cuore batte. Batte come un caldo, confortante blues di Lucinda Williams. Sono le sei di sera. Per caso passi vicino a dove abitava un tuo caro amico. Guardi l’antica casa appena ristrutturata. Il portone di legno, che una volta si apriva sul fare di serate allegre. E ti ricordi quella vecchia prostituta che abitava sul suo piano. Una donna tanto brutta e trascurata nell’aspetto, quanto piena di grazia e umanità nei modi e nel parlare. E ti ricordi di quelle volte che lei, presenza notturna e attenta, quando il tuo amico si assentava, vegliava la casa e il pianerottolo con la generosità di chi – vivendo nel pericolo e nella precarietà – è votato a proteggere sé e gli altri. Camminando incrocio un cingalese, o forse un pakistano. I tratti del volto sono quelli di un nero, ma egli africano non è, ha quell’aria orientale nello sguardo, il sorriso lieto di vivere degli indiani. E’ davvero sorridente, sotto una cascata di capelli ricci e neri. Lo guardo quell’attimo sufficiente da imprimere nella mia memoria il suo volto. Volto che mi porto a casa, e che mi tiene compagnia, qui, davanti al pc, alle undici di sera, mentre scrivo, e mi ricorda di aver visto un uomo venuto da lontano, e che è contento di vivere. Contento di vivere in questa città. Anch’egli, con me, scolta il tuo cuore, città.

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Giorgio de Chirico – Ippolito e i suoi compagni su i monti dell’isola di Creta – olio su tela.

 

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7)

Sotto questo cielo gessoso, bianco di latte rappreso, gli intonaci sembrano spenti, ma le luci fioche, nella nebbia, bucano le lontananze, e si fanno irreali, come di sogno. Dal finestrino dell’autobus, alla svolta di un grande incrocio vicino a casa, scorgo il fondo della lunghissima arteria, che va a morire sotto il grattacielo comunale, e laggiù baluginano dei rossi e dei gialli come di fuochi fatui nella notte incipiente. Via Melchiorre Gioia è un boulevard che unisce due realtà, la Milano elegante di Brera e Porta Nuova, fatta di negozietti frivoli e costosi, gallerie d’arte e sfiziose trattorie, di case d’epoca e dimessa e raffinata nobiltà, alle periferie di Greco, delle vecchie fabbriche, dove abita gente più alla mano, animata da una concretezza meno intellettuale. E’ fine novembre, gli uccelli volano bassi, cade qualche fiocco di neve. L’autista fissa torvo e stanco l’asfalto, mentre il fiume di macchine va in ambo le direzioni, porta a casa i suoi eroi giornalieri, e Brera è laggiù, sprofondata in un altrove quasi irraggiungibile, vista da queste propaggini cittadine ai margini degli scali ferroviari. Ascolto il cuore di questa città stanca a fine giornata, e mi consolo col sorriso di una signora che mi cede il passaggio per scendere. Non è dura questa città, è una città dalla composta espressione, sa anche aprirsi in gesti amorevoli, sempre con la discrezione che le confà. Milano, vecchia terra d’Insubria, vecchia battagliera, sei così dolce nella tua grassa nebbiolina, nei tuoi fiochi languori serali. E’ l’ora dell’aperitivo, i Bitter arancioni brillano in grossi bicchieri, le patatine allegramente svolazzano sui tavolini, c’è chi tenta la fortuna di una lotteria, ed esce speranzoso dal tabaccaio con passo dondolante. Thornton Wilder, come pochi altri, seppe narrare la città, ovvero “La piccola città” (“Our Town”), secondo il tentativo di dare valore supremo a tutti i Nostri piccoli atti quotidiani, le Nostre speranze e le Nostre sperdute dimenticanze: quante volte nella Nostra vita abbiamo sfregato un fiammifero? Oppure, quante volte abbiamo detto “ti amo”? Se ci pensiamo, il conto non potrebbe che portare a una somma limitata, finita, così come finite, limitate, tragicamente limitate, sono le Nostre esistenze. Così, la città diviene luogo della finitezza, e di una – irrealizzabile, sul piano terreno – aspirazione all’eternità. Aspirazione – irrazionale – alla felicità, tramite la scommessa col fato, che nell’animo del piccoloborghese – mai come oggigiorno – si traduce nel costante azzardo tramite le lotterie e i gratta e vinci. Non c’è niente di più straziante che vedere l’espressione di attesa dello scommettitore, mentre con una monetina asporta la pellicola argentata che cela la combinazione, il più delle volte non vincente. In quello sguardo c’è tutta la miseria della finitezza terrena, la limitatezza urbana – intesa come limitatezza del raggio d’azione della Nostra creatività – che cerca di adescare una divinità cieca al fine di ricevere un dono – immaginato come meritato – dal Cielo. Nel rito della scommessa con le lotterie, si cela l’aspirazione all’eternità del popolo piccoloborghese, alle prese con le bollette, le rate del mutuo, la spesa quotidiana, che non sempre lasciano molto margine nel conto in banca. Ma la limitatezza, in verità, non ci limita, anzi, ci connota proprio come Esseri Umani. Proprio nella dimensione della città, limitante il Nostro raggio d’azione, possiamo cogliere il Nostro Destino, la Nostra possibilità di agire e costruire all’interno di un orizzonte definito. Nello stato di infinità del Cosmo, l’orientamento diventa, oltre che difficile, inutile. E’ nella limitatezza che ci si può orientare, e quindi incamminare verso un obiettivo, che diviene concreto e realizzabile all’interno di una concezione etica dell’esistenza.

La neve si fa più insistente, nella nottata ne cadrà molta. E domani, su questi asfalti grigi, ci sarà una coperta di soffice seta bianca. Domani… domani…

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Alberto Savinio – Le songe d’Achille – 1929 – Olio su tela, 74 x 91.5 cm.
Collezione privata, Brescia.

 

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8)

Ferragosto stringe le sue tenaglie sulla metropoli. I tanti punti di riferimento delle Nostre giornate scompaiono, risucchiati nel nulla della necessità vacanziera. Così chiudono negozi, bar tabaccherie a cui siamo abituati, il giornale lo vendono solo al supermercato, ci troviamo espropriati dei Nostri abituali percorsi giornalieri. Eppure, città, ti amo ora più che mai, più che mai ascolto il tuo cuore in queste vuote giornate. Batte ancora più forte, batte nel cuore del vecchio seduto al bar, l’unico aperto, mentre toglie con grazia i semi dalla sua fetta d’anguria, premio di un’intera esistenza. Batte nel cuore del lettighiere che scende dall’ambulanza, e viene a bere un caffè in una pausa affocata dal caldo, mentre attende una delle sue tante urgenze. Batte nel tuo cuore mai arido, nemmeno nel deserto d’agosto. In questi sguardi solleciti, scambiati fra i pochi rimasti in città, fra chi si saluta, ormai desertitudine tutt’attorno, come sui sentieri di montagna. Cuore di città assediata dal caldo e dal Nulla, periferia degli umani, deserto di anime, che infittisce la solidarietà, che permette di gettare nuovi ponti verso rive fiorite di amore e umanità, e per questo è sufficiente uno sguardo, una parola gentile, un saluto dato con garbo. Tanta, è la gratitudine nel cuore di chi li riceve. Passo questo ferragosto, uno dei tanti, nel cuore della città mia amata. Un cuore che ascolto una volta di più, che non mi stancherò mai di ascoltare. Struggente è il volto della città ad agosto. Si fa sofferente e diafano, traspare sulle sue rughe la risacca del tempo, che tanto ha arato i suoi sentimenti, che da lungi ha stemperato le aspettative. Come una vecchia signora, aspetta sull’uscio il postino, che le rechi una lettera. Arriveranno le attese nuove da lontano? Chissà. Forse l’attesa è una tensione che mai si allenterà, che ci condurrà sino alla tomba. Si aspetta, non si finisce mai di aspettare. Sedevo a un happy-hour. Sotto il telo della veranda, eravamo in pochi, nella giornata che scemava nel cielo alto e sbiadito oltre la linea dei cornicioni, in quella zona decentrata fatta di scali merci e rimessaggi tranviari. Un vecchio liberty consunto e meditabondo, sostava sulle facciate delle case dagli sguardi anemici di finestre aperte su stanze vuote. Un quartiere di vecchi, di arabi, di cingalesi, di povera gente, anime che si trascinavano lungo i marciapiedi nel tentativo di intercettare un filo d’aria. Così guardavo il volto di un giovane uomo all’happy-hour. Tutt’altro che happy. Lo guardavo, e stavo male. Il suo dolore era anche il mio, per traslazione, per identificazione. Potevo intuire cosa si celasse oltre lo sguardo azzurro di quegli occhi vitrei, immersi in un viso gonfio e dolorante di esistenza malata. Il dolore di chi aveva molto atteso e sperato. Di chi era stato a lungo disatteso. Uno sguardo aperto sull’Inferno. La città a volte ti sbatte in faccia visioni che ti lacerano, che ti fanno sentire quanto fragile e amara sia l’esistenza. Sedeva con una ragazza e un ragazzo. Parlavano di pubblicità, di siti, di grafica. Compresi al volo. Era uno dei tanti esperti di comunicazione ed editoria mal pagati, maltrattati dai datori di lavoro. Uno del sommerso editoriale. Aveva occhi che guardavano, ma non vedevano, occhi che non cercavano più nulla. Ebbi il magone al petto. Mi rividi in lui. Universo di disperazione. Mi rividi in uno sguardo che credo, in passato, di avere avuto pure io. Vetro e fuoco e fiamme di apatia e mestizia, in quegli occhi, che fissavano il proprio fallimento, le proprie disattese speranze. Il ferragosto trascinò via con sé una calda giornata, stemperata in un piovasco notturno. Un nuovo giorno, un nuovo domani, si celavano in quelle gocce rinfrescanti. Ma forse non per tutti.

ASCOLTO IL TUO CUORE CITTA' elzeviro
Giorgio de Chirico – Piazza d’Italia – 1948

Milano, aprile 2008 / settembre 2009

©, 2013

 

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