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Il cursore lampeggiava sullo schermo con regolarità, perfetta, assoluta.
Blink, blink, blink.
Era decisamente ipnotico, possedeva un fascino trascendente.
Pensò che fosse la perfetta sintesi di migliaia di anni di storia dell’ingegno umano: guerre, epidemie, rinascite, grandi invenzioni, la corrente elettrica che arrivava nelle case, fino ad una spina, e poi un cavo la trasportava sino ad un misterioso intrico di circuiti elettronici chiamato computer, sul cui schermo il cursore lampeggiava nella agghiacciante solitudine di un campo quasi infinito, come se quella vasta entità bianca non gli facesse nessun effetto, imperturbabile come un perfetto soldato, totalmente assorbito dal suo compito: blink, blink, blink. solitudine…
Tutta la capacità dell’uomo racchiusa in quel simbolo minuscolo ma allo stesso tempo poderoso, che dava l’idea di poter essere eterno, nel suo stoico lampeggiare, sino a quando il sole sarebbe collassato in una nana bianca ed oltre. solitudine…
Strano quanto in fondo quel cursore le assomigliasse, rifletté.
Erano quasi amici, anche se vivevano in mondi diversi, che non potevano davvero congiungersi in alcun modo: condividevano il senso dell’attesa.
Il cursore attendeva paziente che qualcuno premesse un tasto per depositare un carattere e poi spostarsi un pochino di lato, in attesa di un’altra pressione, forse sperando che scaturisse una mitragliata di pigiate di tasti, che gli permettessero di depositare una sfilza di caratteri che di colpo divenivano una parola, poi una frase, poi un pensiero compiuto, da osservare ammirato dietro di sé come a dire “oibò, guarda te che roba che mi è uscita!”.
Chissà se il cursore pensava di essere lui l’autore di quel pensiero, o se era consapevole di essere solo il tramite di una realtà esterna, superiore e sconosciuta, quasi divina.
Gli esseri umani non è che siano tanto diversi, pensò: in fondo moltissimi credono davvero di essere solo l’espressione della volontà di un essere superiore, dei cursori anch’essi, solo in forma biologica invece che elettronica.
Che buffo.
Blink, blink, blink.
Pensò a quante volte si era messa alla tastiera di quel computer per cercare di esprimere a parole, su uno schermo, ciò che non riusciva più ad esprimere con la voce.
Che strano.
Si considerava una persona sociale, ed in effetti si era sempre mostrata a suo agio, in mezzo alle persone: era considerata divertente, di piacevole compagnia, ed aveva svolto lavori basati proprio sul comunicare, con l’essere in contatto con gli altri.
Tuttavia, poco alla volta, anno dopo anno, aveva percepito quei rapporti come sempre più superficiali, inutili, ed aveva iniziato a chiudersi in se stessa, delusa dalla vacuità del proprio prossimo.
Gli amici si erano sempre più diradati, o meglio, i conoscenti, ed ormai frequentava pochissime persone, e molto di rado.
Aveva ancora due o tre care amiche, questo sì, alle quali voleva molto bene, ma le loro vite le erano incomprensibili, non riusciva a capire come potessero accettare di vivere dei compromessi o delle situazioni che lei non riusciva a vedere se non come umilianti, soprattutto in termini di rapporto di coppia.
Non aveva mai conosciuto l’amore, o almeno, così le sembrava. Aveva vissuta qualche infatuazione, ma molto breve, per quanto intensa, ed ormai si era quasi convinta che probabilmente non era fatta per quel tipo di emozioni, anche se le sarebbe davvero piaciuto viverle, anche solo per una volta nella vita.
Doveva davvero essere bello, provarle.
Blink, blink, blink.
Con il suo allontanarsi dal mondo aveva ripreso a dipingere ed iniziato a scrivere, non perché credesse di essere una pittrice od una scrittrice, ma solo perché era un modo meno clamoroso di esprimere il proprio sgomento che non urlare alla luna in giardino, cosa che spesso sentiva la voglia di fare.
Non aveva mai amato gli eccessi.
Il mondo intorno a lei le era divenuto sempre più incomprensibile, e le tornò in mente il protagonista di quello che riteneva uno dei più bei romanzi di fantascienza mai scritti, “l’uomo che cadde sulla terra”: le sarebbe piaciuto conoscerne l’autore, aveva saputo descrivere il senso di totale alienità con tanta maestria che doveva averlo vissuto in prima persona… proprio come lei.
Ormai non si aspettava più nulla, dalla vita: si sentiva come se avesse già vissuto tutto quello che avrebbe potuto vivere, e che non la attendessero che tanti giorni tutti uguali, sino a che non sarebbe sopraggiunto l’inevitabile.
Accettava ormai la sua solitudine come un qualcosa di normale, così come tutti accettiamo di avere la pelle o dei muscoli: qualcosa che fa parte integrante di noi, della quale sembrerebbe persino assurdo il solo pensare di potersi liberare.
Era un peccato, perché lei sapeva, sentiva di avere una intera vita di amore accumulato in se stessa e che non aveva mai potuto venire fuori, ma ormai si era rassegnata al fatto che non avrebbe mai potuto esprimerlo. Probabilmente ne aveva a disposizione una tale quantità che avrebbe soverchiato chiunque al quale lo avesse indirizzato, sarebbe stato come scagliare un autoarticolato a tutta velocità su un inerme pedone.
Blink, blink, blink.
Caro cursore, siamo proprio messi bene, io e te, pensò, non senza lasciare che un sorrisetto malinconico le apparisse sul viso, scuotendo lentamente la testa.
Guardò fuori dalla finestra, rimirando le luci notturne del paese, che si intravedevano in lontananza, e la tenue luminosità che veniva dalla città, poco oltre l’orizzonte.
Forse in quel preciso momento, altre dieci, cento, mille solitudini come la sua stavano rimirando un cursore che lampeggiava silenzioso sullo schermo di un computer, proprio come lei.
Rimase qualche secondo come incantata con lo sguardo, poi si scosse, e spense il computer: decisamente quella sera non sarebbe riuscita a scrivere nulla di buono, si sentiva ormai troppo malinconica.
Si versò un bicchierone di acqua gelata, lo trangugiò velocemente e poi fece il giro della casa, spegnendo le luci e controllando le porte, ed infine si mise a letto.
Ripensò alla sua giornata, uguale a tante altre, e sospirò, chiudendo gli occhi, ed avvolgendosi nel piumone.
Sapeva che non era affatto probabile, ma riuscì ad addormentarsi sperando che il giorno successivo, forse, qualcosa sarebbe accaduto, capace di spezzare quella solitudine: tutto sommato, finché riusciva a sperarlo, valeva la pena tentare di continuare a vivere.
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