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Gli stormi d’ottobre attorno al grattacielo Pirelli, che qui a Milano chiamiamo affettuosamente “Pirellone”. Quelle belle serate d’autunno spazzate dal vento e dai primi freddi secchi. Quell’attesa di qualcosa di magico che si fa strada lungo le vie, negli sguardi della gente. Le ombre della sera e le luci dei bar. Le luci amichevoli sui palazzi di vetro. E gli stormi. Quegli incredibili stormi d’uccelli migratori, che ogni ottobre, per un paio di settimane, animano il cielo attorno al Pirellone, facendogli corona, creando attorno al suo alto collo delle sciarpe che si aprono, si richiudono, si sfaldano e si ricompongono in una magia di forme effimere e veloci, portate dal vento. Ogni anno attendo ottobre, e attendo i suoi stormi.
Essi scandiscono l’anno. Per me sono una ricorrenza, personale, simbolica, oltre che naturale. Simbolo di cosa? L’anno scorso erano simbolo del mio amore per S***. A fine giornata, ci trovavamo a bere un drink al Bar New York. Un bel bar, in stile americano, grandi vetrate e insegna azzurrina, che si illumina nella notte sul marciapiede con una luce invogliante. Dopo i miei lunghi viaggi in metrò, sbucavo in superficie alla Stazione Centrale. Compravo qualche libro a un euro in una bancarella di slavi. E portavo il mio “bottino” al New York Bar, dove lo mostravo al mio amore. Ci scambiavamo i giornali, i free-press presi in metrò. Leggevamo qualche notiziola, bevevamo il nostro Rabarbaro, fumavamo una sigaretta nella veranda riscaldata. E sopra di noi c’erano, a volare, a vegliare sui Nostri destini, quelle migliaia di uccelli migratori, quegli stormi d’ottobre. E’ passato un anno. La magia si ripete. Ma questa volta non mi godo pienamente la visione dei miei stormi. Mi manca un’anima sensibile – quale era quella della ragazza che amavo allora – con cui levare lo sguardo al cielo, e condividere, stringendoci, la stupenda visione. Transito poco in quella zona, quest’anno. Da lontano guardo gli stormi, quasi non avendo più il diritto di andarvi sotto, a goderli nella loro potenza, che si fa anche sonora: migliaia di uccelli che cinguettano in sincrono. Svicolo, evito. Alzo la testa, e osservo da lontano, quasi a volermi fare una ragione che quel prodigio, ora, non mi appartiene. E mi dico: avessi una donna, con cui ammirare gli stormi. E poi mi dico: non sarebbe la stessa cosa. L’incanto non mi appartiene più. Devo accettare il mutamento, l’impietosa lezione della vita, della perdita. Ascolto il tuo cuore, città. Lo ascolto nel ricordo, nel rimpianto. Ma lo ascolto anche nell’attesa di domani, e dopodomani. Le tue strade, i tuoi marciapiedi – come un fiume eracliteo – cambiano e sorprendono, nel divenire continuo. Così come cambiano i cuori che ti percorrono: senza le persone, saresti solo un cumulo di belle architetture, di inutili monumenti, di macerie. Ascolto il tuo cuore, città, perché amo i miei simili, perché sono un animale sociale, amo e soffro nella relazione, nello stare tra gli uomini. Quando cammino lungo un marciapiede, quando – chiuso in un vagone affollato – ti attraverso in metrò, mi rendo conto di quanto forte sia il legame che mi unisce agli uomini. Anche uno sconosciuto rappresenta una parte che mi appartiene. Nel singolare di ognuno di noi, è racchiusa l’universalità degli esseri umani. E allora ecco cosa rappresentano quegli stormi per me: gli uomini, la totalità che si aggira nell’Universo.
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