NATURE MORTE Caravaggio Pinacoteca Ambrosiana
“Io avrei voluto porgli accanto un altro canestro simile, ma non avendo potuto nessuno raggiungere la bellezza ed eccellenza incomparabile di questo, rimase solo”( Federico Borromeo, Musaeum Bibliothecae Ambrosianae, 1625).
Il cardinale e arcivescovo di Milano, sensibilissimo collezionista, ponendosi un problema di natura squisitamente estetica nell’allestimento della neonata Pinacoteca Ambrosiana, in quella “fiscella” del Caravaggio “ex qua flores micant” (palpitano, rilucono) riconosceva l’aura del capolavoro. La vediamo ora nello stimolante accostamento con la Fiascafiorita, vertice pittorico di ben più enigmatica fama. Dell’una conosciamo molto, ricorda il professor Antonio Paolucci nella lectio magistralis di presentazione. Dipinta da Michelangelo Merisi (Milano 1571 – Porto Ercole 1610) sui 25, 28 anni a Roma, ove risiedeva dopo la prima formazione lombarda, la Canestra di frutta (1596-1599 circa, olio su tela, cm 31×47) fu acquisita quasi subito dal cardinale allora nella città eterna, o direttamente dall’artista o più plausibilmente quale apprezzatissimo dono dell’amico cardinale Francesco Maria Del Monte, ambasciatore del granduca di Toscana, primo grande estimatore, mecenate e protettore del Caravaggio che in quel lustro generosamente ospitava in Palazzo Madama, proprietà Medici, di fronte alla chiesa di San Luigi dei Francesi e con il quale il Borromeo condivideva una raffinata e originale passione per la pittura. Presente nella collezione privata dell’arcivescovo dal 1607, anno di fondazione della Biblioteca Ambrosiana, la tela fu donata insieme all’intero corpus alla Pinacoteca aperta al pubblico nel 1618, istituzione unica nel suo genere, così intimamente connessa alla prima e concepita come florilegio di exempla pittorici su cui formare sistematicamente una generazione di artisti capaci di tradurre in immagini pregnanti il dettato post-tridentino e diffonderlo nella vastità della diocesi milanese. Della seconda sappiamo quasi nulla. La Fiasca fiorita (olio su tavola, cm 68,5×51,2. Forlì, Musei di San Domenico, Pinacoteca Civica), celebrata per primo da Francesco Arcangeli (1952) come esprimente una “temperie di barocco segretamente premente, ma non ancora esploso dal vincolo dell’osservazione” e attribuita al grandissimo Guido Cagnacci (Santarcangelo di Romagna 1601 – Vienna 1663), è stata più recentemente ricondotta al fiorentino Carlo Dolci (1616-1687) dal Baldassari (1995) o ancora al romano Tommaso Salini (1575 ca-1625), caravaggesco di prima generazione (Mina Gregori, 2003). Paternità suggerite pertinenti tutte, nessuna del tutto convincente. Le ragioni stilistiche così mirabilmente definite dall’Arcangeli conducono a considerare il controverso pittore un degnissimo erede della lezione caravaggesca nell’ostentato pauperismo di quel fiasco impagliato sfasciato e riutilizzato, indecoroso scrigno da cui traggono ancor vita meravigliosi, delicatissimi fiori variopinti, interpretabile secondo il concettismo metaforico, etico e religioso, tipico dell’epoca. D’altra parte il senso di estenuata scompostezza, l’epidermico sensuale turgore di questo brano di natura come smosso da un vitalistico soffio barocco, paiono a stento ancora trattenuti dal severo, spoglio, essenziale rigore proprio del Merisi. Nelle famose Risoluzioni in materia artistica in chiusura del Concilio di Trento del 1563, la Chiesa controriformata aveva perentoriamente ribadito il valore del vero visibile quale epifania di Dio e dunque la validità delle immagini, strumento al servizio della fede. Caravaggio porta il concetto alle più radicali conseguenze. Rifiuta il falso dogma del decoro e sovverte la gerarchia dei generi, poiché “tanta manifattura è fare un quadro buono di fiori come di figure”. Il vero sarà il quotidiano più ordinario e volgare, perché la natura, in quanto manifestazione del divino, è tutta degna di rappresentazione. La vanitas del suo destino mortale, con il monito morale che ne consegue, si rivelano naturalmente. Sono i colori autunnali, sono le foglie avvizzite, è la mela bacata. Ma i guasti non offendono la bontà dei frutti maturi, né la variegata grazia dei fiori offerti al nostro sguardo. “…lui non loda apertamente neanche se stesso” testimonia Carel van Mander, che conobbe il Merisi a Roma e “non traccia un solo tratto senza star dietro la natura e questa copia dipingendo”. La rivoluzione galileiana, verità di scienza, può essere anche professione di humilitas. Il sole non gravita più attorno alla terra. L’uomo non è al centro dell’universo. Questo ci dicono oggi le due sublimi, umilissime, silenti nature.
VIVIDE NATURE MORTE
La canestra di Caravaggio e la Fiasca fiorita
Curatore: Marco Navoni
In collaborazione con la Fondazione Cassa di Risparmio di Forlì e i Musei di San Domenico di Forlì
Pinacoteca Ambrosiana – sala 5 – Piazza Pio XI, 2 – Milano
Dal 27 settembre al 9 novembre 2008
©, 2008
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