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Fino al 1903 Di Giacomo aveva goduto di notevole popolarità e pressoché unanimi consensi, ma la sua produzione continuava ad essere segnata dall'etichetta di "poesia dialettale". Uno studio di Benedetto Croce, apparso quell'anno su La Critica, giovò alla reputazione dell'artista presso i critici e cercò di dissolvere un equivoco frequente. Secondo Croce un autore è innanzitutto poeta, e Di Giacomo aveva dimostrato di eccellere scrivendo in versi. Si era impadronito della poesia tout court, per cui la lingua in cui l'aveva espressa era un aspetto secondario. Francesco Gaeta, citando lo scritto crociano, ne enucleava efficacemente le linee essenziali: «Salvatore Di Giacomo è, sic et simpliciter, un poeta. Quanto all'aggettivo "grande", esso traspariva dall'intero contesto dello studio». (Wikipedia)
Nato il 12 marzo 1860 a Napoli, Salvatore Di Giacomo fu avviato dai genitori agli studi scientifici, e per un certo periodo frequentò la Facoltà di Medicina. Presto però iniziò una collaborazione con Il Mattino di Napoli, dove curava la rubrica letteraria. I suoi primi racconti risentivano dell’influenza romantica e della scapigliatura, molto delicati nei toni e dagli effetti dilatati e languidi, e sempre tesi a rimandare lo scioglimento del nodo drammatico. Diresse anche la Biblioteca Nazionale, dove ancora oggi si possono trovare le sue annotazioni minute e precise. Nel 1924 fu nominato da Mussolini senatore insieme a Ugo Ojetti. Nomina in seguito bocciata dal Senato, benché caldeggiata da Benedetto Croce.
Insofferente rispetto al decadentismo di Pascoli o al barocchismo di D’Annunzio, Di Giacomo si colloca in maniera originale nell’Italia letteraria fine secolo.
Sempre chino sui suoi fogli, solitario e nemico dei salotti letterari, poco socievole e scarsamente diplomatico, Di Giacomo si ammalò di nevrastenia. Ciò però non impedì al poeta di legarsi perennemente alla nascita della nuova canzone napoletana, a far diventare quest’ultima una somma forma d’arte.
Di Giacomo morì a Napoli nella primavera del 1934. Gran parte delle sue liriche vennero musicate, e restano tuttora capolavori della canzone napoletana (La luna nova nmez’a lu mare, Quanno sponta la luna a Marchiare, ecc…).
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