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CUORE SELVAGGIO David Lynch macabro e disperato Sud

CUORE SELVAGGIO David Lynch macabro e disperato Sud

Burning Memories (n.d.r.)
Cito in apertura la celebre canzone di Waylon Jennings (Texas Style Singer) in quanto – a mio avviso – consona alle atmosfere di bruciante ricordare che David Lynch ci propone in serrati flash back (nella prima parte del bellissimo film) sottolineati da frames che inquadrano il divampare crepitante di un incendio, quale immagine metaforica di un bruciare di memorie nell’animo di Sailor (Nicolas Cage) e Lula (Laura Dern), intrappolati in un legame amoroso al quale troppe ombre del passato – nelle vite dei due protagonisti – impediscono di prendere il volo.
A 16 anni dalla sua comparsa, il capolavoro della cordata Lynch-Gifford-Badalamenti non delude, anzi, conferma la qualità del buon vino invecchiato. Quante strade ha aperto il coraggioso Lynch con “Wild At Heart”: ci sarebbe stato “Natural Born Killer”, se non ci fosse stato “Cuore Selvaggio”? mi chiedo. Quanta altra letteratura non ci sarebbe stata, anche a casa Nostra, se – su un registro diverso, ma altrettanto coraggioso – Bret Easton Ellis non avesse avuto la grinta e la fiducia nei propri mezzi per dare alle stampe “American Psycho”, col risultato di sentirsi inizialmente sbeffeggiare dalla critica ufficiale quale maniaco perverso psicotico, etc etc?
Lynch non raccolse, tuttavia, tali giudizi, in quanto le perversioni che narra in questa pellicola sono partecipate emotivamente dall’IO narrante, attraverso sapienti atmosfere lirico-musicali (un grazie al grande Angelo Badalamenti, per averci donato una fra le più belle colonne sonore mai realizzate), e struggenti campi totali (ad esempio: deserto del Texas al tramonto) che definiscono ai Nostri occhi di spettatori la posizione emotiva e morale del creatore rispetto alla brutalità – a questo punto non gratuita – della vicenda.
Ci trovaimo – guarda caso – in un luogo della Carolina del Sud chiamato Cape Fear (ma qui non possiamo dire che Scorsese abbia più tardi copiato, in quanto “Promontorio della Paura” altro non è che un remake di Orson Welles), dove si consuma, a una festa di sfarzosa magnificenza Southern Style – che ricorda il buon vecchio William Faulkner – un delitto che solo apparentemente innesca la tragedia e la fuga, in quanto l’innesco – si capirà strada facendo (la strada che, ancora una volta nell’American Dream, dovrebbe portare a Ovest) – era già partito molti anni addietro, quando Sailor fu testimone di un omicidio. La madre di Lula, la terribile madre di Lula, vuole togliere di mezzo Sailor, per ragioni del tutto criminali, ma anche a causa di un morboso legame simbiotico che la lega alla figlia, bionda ragazzona dai sentimenti molto semplici, leggermente ritardata, ma di grande cuore, che a 13 anni subì lo stupro da parte dello Zio Puch. Il quadretto della classica famigliola paranoica e sessuofoba americana, emerge in flash back sempre accompagnati dal frame dell’incendio, che, in tutta la prima parte del film, ci segue, a dettare il ritmo di un lento, per quanto sincopato, tentativo di fuga in California da parte di Sailor e Lula, cullati spesso dalle note di un Elvis Presley, che, non a caso, ha dato il meglio di sé in piena paranoia anticomunista e sessuofoba, come sappiamo.   
Da poche ore in libertà vigilata, dopo aver scontato la sua pena per omicidio colposo, Sailor, in compagnia della tenera disarmante Lula, varca il confine della Louisiana, mettendo seriamente a repentaglio la sua condizione rispetto alla Legge. Sulle loro tracce c’è il detective Johnny Farragut (interpretato dal magistrale, sconsolante Harry Dean Stanton) ingaggiato dalla madre di Lula, con la quale Farragut ha un vecchio legame amoroso, mai del tutto chiarito (si diranno “ti amo”, per la prima volta, solo a New Orleans, in un ristorante francese, poco prima che Farragut venga ucciso) in quanto sempre stato di intralcio al legame di Lei con Santos, malavitoso che le avrebbe ucciso il marito (dando, come si diceva, l’innesco alla storia dannata di Sailor).
Harry Dean Stanton
I due amanti vengono individuati in un albergo di Bourbon Street (visioni di New Orleans ampiamente pre Katrina) e Farragut sarà “venduto” a Santos, che lo farà uccidere da una sorta di strega satanica, amante di sesso-e-morte, durante un rito Cajun Voodoo che ci fa un po’ pensare alla patrona delle streghe del Delta, certa Marie Laveau della tradizione. Qui la storia è per un momento attraversata da criminali patologici e compiaciuti, molto pittoreschi e decadenti come altra grande letteratura ci ha mostrato, ad esempio “Omicidio a New Orleans” di James Lee Burke (vedasi anche film omonimo con Alec Baldwin).
Ora siamo in Texas, la decappottabile corre nella notte verso San Antonio. Ci stiamo approssimando alla scena più bella del film, e a una delle scene più belle della storia della cinematografia: qui Lynch ci dà un’anticipazione del suo più morboso film, ovvero “Lost Highway”. Lula vede nel cielo la Strega Malvagia dell’Est. La macchina corre, come sul sapone, tutto è fluido, notturno, con quella stupenda canzone di Chris Isaak, “Wicked Game”, appunto. Mi aspettavo quella scena, dopo 16 anni, con il fiato sospeso, e mi colpì forse più che a una prima visione, quando ancora molto poco capivo della vita, e della morte:
« E’ sempre uno shock quando ti accorgi che la realtà non è come te l’eri immaginata», affermava Lula, quando ancora il sole brillava infuocato sul Texas; ora è notte, Farragut è appena stato ucciso con un colpo di rivoltella alla nuca, nel preciso istante in cui la strega si faceva scopare raggiungendo un malsano orgasmo con un gregario di Santos. Stracci, stracci bianchi illuminati dai fari compaiono all’improvviso sull’asfalto della Highway 118. La visione continua a lungo, stracci lasciati confusamente sull’asfalto. I fari illuminano una macchina ribaltata. Due cadaveri insanguinati. Un’ombra. Una bellissima ragazza brancola nel buio, cercando al alta voce il suo pettine. Si mette le dita in testa. Si sente uno strano rumore, di cosa viscida, di cranio sfondato. Cerca ad alta voce il suo portafogli. Impreca per la perdita del suo portafogli. Si accascia. Invoca il suo rossetto, con il viso inondato di sangue. Muore.
cuore selvaggio w d
Willem Dafoe
Siamo quasi all’epilogo di questo trascinante road movie. La fuga a Ovest avrà il suo tragico epilogo a Lobo, nei pressi di Big Tuna (Texas).
Big Tuna compare in una malsana scena notturna, una strada costeggiata da due file di case, basse, quadrate, capanne in mattoni. Un gruppo di oziosi texani al tavolino di un bar. Ma prima c’è la performance di Isabella Rossellini, nei panni di Perdita, anche lei appartenente alla combriccola di Santos: ormai Sailor e Lula sono fuori dal tracciato che li avrebbe portati in California, e Lula se ne accorge, e chiede spiegazioni. Sailor è evasivo. Chiede a Perdita se per caso c’era un contratto su di lui. Perdita dice di non saperne niente. Scende la notte. Gli oziosi texani trincano Jack Daniel’s. Parlano a vanvera di cose del cazzo. Fanno sottili illazioni. In una baracca vicina stanno girando un film porno Texas Style, dice uno degli oziosi, sghignazzando da deficiente. Clima teso, paranoico, subnormale, idiota, di profonda sperduta provincia americana del Sud. Ecco che irrompe sulla scena l’angelo nero, Bobby Perù, interpretato da Willem Dafoe.
La parabola discendente ha inizio. Ex Marine con trascorsi traumatici nel Golfo del Tonchino, che avrebbero determinato la sua degenerazione esistenziale, Bobby Perù ingaggia Sailor per un colpo da 5000 $ ma è d’accordo con Perdita – ovvero Santos – di fargli avere un incidente per toglierlo di mezzo. Lula aspetta un figlio. Vomita nella stanza di motel. Il colpo fallisce per l’intervento di uno sceriffo, Bobby – colpito al petto – si accascia e si stacca la testa con un colpo di fucile a canne mozze Itaka, e Sailor finisce nuovamente in galera, per 6 anni.
Sei anni dopo esce di galera e arriva col treno alla stazione di San Antonio (Texas), dove c’è Lula col figlio di sei anni ad attenderlo. Scena in perfetto stile buoni-antiretorici (forse un po’ retorici, ma pienamente godibili) sentimenti americani.
« Portami a casa », dice semplicemente Sailor, dopo che Lula gli chiese se avesse avuto per caso fame. Ma Lula, in macchina, ha un ripensamento, in quanto sta ancora subendo il voodoo-simbiotico-materno. La madre sta un’altra volta vincendo sul loro amore. Sailor si scazza. Saluta il figlio e Lula con frasi molto pragmatiche, del tipo “non complichiamoci la vita, tra di noi, non vedendoci da sei anni, sarà tutto più facile”, e torna alla stazione. Sulla strada viene pestato da nove sgherri mandati dalla madre di Lula. Cade. Ha una visione. Vede la Strega Buona del Mago di Oz, che gli dice:
«Se credi di avere un cuore selvaggio, combatti per i tuoi sogni (…) non fuggire dall’amore.» Corsa sui tetti delle macchine incolonnate per un incidente, e finalmente il dolce finale liberatorio: l’amore si compie, per sempre.
E qui mi viene da citare un’altra canzone, questa volta di Earl Thomas Conley & Emmylou Harris: “We  Believe In Happy Endings”.
CUORE SELVAGGIO – WILD AT HEART
REGIA: DAVID LYNCH
Con: Nicolas Cage, Laura Dern, Willem Dafoe, Isabella Rossellini
USA, 1990
Durata: 2 ore 35 minuti
©, 2006
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