DOWN IN THE VALLEY Edward Norton struggente California
La San Fernado Valley (California) appare agli occhi di un giovane cowboy sceso dal South Dakota in cerca forse di se stesso, e dei suoi vecchi legami famigliari, il punto in cui finalmente fermarsi dopo un lungo cammino. Lo vediamo Harlan Carruthers (interpretato da Edward Norton) camminare, zaino e coperta arrotolata in spalla, lungo i bordi di una strada alla periferia di Los Angeles, mentre fiumi di automobili incolonnate percorrono in tutte le direzioni le freeway sospese su imponenti raccordi che cingono di cemento, quasi delle fortezze, la San Fernando Valley e i suoi abitanti, abituati a condurre vite anonime in casette periferiche a un solo piano, col consueto giardinetto sul davanti e il cortile sul retro, la televisione nel salotto decoroso e le camerette in cui gli adolescenti si annoiano da morire, mentre i genitori sono al lavoro. Il sole è onnipresente e infuocato su questa fetta di terra tanto fertile di frutteti e colline erbose, quanto desolata e solitaria, di una desolazione che prende subito il cuore, perché qui è evidente che il sogno americano è solo un’illusione, e la vita americana non è fatta per gente tenera, “L’America è troppo dura per gli umili”, come dirà nel corso della storia il padre putativo di Tobe (October), ragazza dolce e grintosa che guarda gli aeroplani dai cavalcavia con la sensazione di essere imprigionata senza speranza nella San Fernando Valley, dove tutto attorno corre troppo velocemente, senza che il giovane adolescente (il fratellino di Tobe) colga il senso di questo eterno divenire.
California, terra di deragliamenti esistenziali e sogni infranti contro le rive dell’Oceano Pacifico, di solitari psicopatici alla James Ellroy e di stelle del cinema decadute, di colture rigogliose dove si consumano le esistenze sfruttate della manovalanza agricola, già descritte da scrittori come John Steinbeck, dove tutto finisce in un sulfureo tramonto sui tetti bassi della Los Angeles dei sobborghi, percorsi da anime perse in alcolici deliri bukowskiani alla ricerca di un senso all’esistenza che conducono, sempre sull’orlo dell’abisso, quegli abissi di solitudine che conosce bene chi si spinge fin qui in cerca di fortuna, senza trovarla, trovando tutt’al più una puttana e una camera ammobiliata e la compagnia di una bottiglia di whisky. Già, così è il sogno americano. Qui in California tutto sembra realizzabile e a portata di mano. Tutto è molto easy, così come Take It Easy recita la celebre canzone degli Eagles. L’ottimismo made in USA trova sulle sponde di queste spiagge assolate il suo scacco definitivo, insieme al nascere nell’Io di idee bizzarre e nebulose, quasi compensazione del fallimento dei tanti propositi di successo cresciuti nel cammino faticoso verso l’Ovest. La conquista della Frontiera sembrerebbe, a questo punto, una perdita delle certezze e delle prerogative acquisite sull’altra costa, o ereditate dal vecchio continente, e l’avvento di un’era di psicotica perdita di coesione interna alla persona. La follia, l’anomia sembrano in agguato qui nell’Ovest, pronte ad assalire l’animo del perdente conquistatore di queste lande desolate, in cui il sogno si trasforma facilmente in incubo, la forza d’animo in forza suicida, la speranza in scommessa persa col destino e la polvere del deserto.
Dal South Dakota la discesa agli inferi è lunga, e si presume che Harlan l’abbia fatta in gran parte a piedi o in autostop, bivaccando sotto i cavalcavia. L’alba di un nuovo giorno lo accoglie in un abbraccio di luce nella San Fernando Valley. Ecco che, qui, l’occhio del regista ammicca fiducioso al sogno americano. Harlan cammina sui bordi della strada, cammina lento e sicuro verso il suo destino, col passo dinoccolato del cowboy pronto ad accogliere ogni dono prezioso che la vita, o più semplicemente la giornata, gli porge. Ma la follia della California, l’anomia di questo cielo troppo luminoso, sono già in agguato sul cammino di questo bravo ragazzo sceso da terre lontane a Nord, dove gli uomini si tolgono ancora il cappello davanti a una donna, dove le consuetudini sono scandite dalla musica country, dove il codice di comportamento ha ancora il sapore di epoche puritane e molto dure. La buona educazione, prima di tutto. L’etichetta, prima di tutto. Sì, Harlan, ma non ti accorgi di essere a Los Angeles?
Lo guardano con occhi golosi, dall’interno della loro automobile, un gruppettino di adolescenti. Tobe siede da sola di dietro. Mentre l’amichetta prende in giro Harlan – che ha trovato un lavoro a giornata come benzinaio – per i suoi modi antiquati da vaccaro di provincia, Tobe lo fissa passare lo straccio sul parabrezza. Mentre Harlan controlla l’olio, Tobe scende e fa il giro dell’auto. Si presenta. Tobe e Harlan si fissano, con una lunga promessa d’amore negli occhi. Tobe invita Harlan al mare. Harlan chiede un permesso al padrone, col risultato di farsi licenziare. In macchina le due Americhe si confrontano. Il mondo rurale e tradizionale di Harlan suscita la curiosità dei ragazzini cresciuti nella immensa e tecnologica e dinamica Los Angeles, che gli fanno le domande più ovvie e vere sulla vita – forse vista solo nei films – dei cowboy, sorta di eroi ancestrali della vecchia America (vedi anche Urban Cowboy) da cui anche loro discendevano, ma di cui avevano perso memoria. Vi era nelle domande dei ragazzini un tono di leggero dileggio misto a fascino per la scoperta delle proprie ancestrali origini. Un cowboy, vero, in carne e ossa, qui tra di noi! Da non credere!
Il fatto che Harlan perda il lavoro per passare la giornata al mare con dei nuovi amici, ce lo fa vedere come avventuriero appartenente a un’America ottimista, che vive secondo l’immutato orgoglio dei vecchi pionieri della Frontiera, che si accontentano di finire la giornata e di iniziarne una nuova l’indomani, sempre animati da un’immutata e immutabile fiducia nelle proprie risorse. La conquista di Harlan ora si concentra su Tobe, la fanciulla dei sobborghi di una immensa città che Harlan farà fatica a comprendere. E dalla quale non verrà compreso. Tanta è la distanza tra Los Angeles e il South Dakota, tanta quanto ne corre tra un carretto tirato da un cavallo e una macchina a iniezione elettronica. Il dramma dell’outsider si esplica in questo film con la potenza di una visionarietà metropolitana che raramente cinema e letteratura sono in grado di mostrarci. I pochi mezzi di cui, tuttavia, il regista si è avvalso, sono stati utilizzati al meglio.
L’amore tra Tobe e Harlan scoppia improvviso e prepotente. Uno spettatore attento non si lascerà sfuggire, sin dalle prime scene di intimità, la promessa di tragedia che questi amplessi voraci e disperati hanno nel loro consumarsi furtivo, in camerette squallide ai margini della grande, disperata megalopoli californiana, nelle cui strade striscia sordida la povertà, che spesso si mescola alla violenza, alla sociopatia, allo sperpero di ogni speranza. Eppure un continuo anelare alla bellezza, alla purezza dei sentimenti, anima l’amore tra Tobe e Harlan. Le loro passeggiate nella rigogliosa San Fernando Valley, in mezzo a una natura lambita dai possenti raccordi stradali delle freeway, sembrano conservare il sentimento puro dell’amore ideale e romantico, dell’intesa intellettuale che si eleva al di sopra la brutalità del Mondo. Harlan e Tobe sono due anime perse, che fatalmente si sono incontrate, e che il destino consumerà in un unico falò di sentimenti.
Il fratellino di Tobe diventa per Harlan il motivo di una assidua frequentazione della casa di Tobe. Il padre putativo di Tobe – che nel corso della vicenda si comprende fare il mestiere di poliziotto – non vede di buon occhio Harlan. Dopo aver salvato Harlan e Tobe dall’arresto per il furto di un cavallo, il padre di Tobe minaccia Harlan con una rivoltella sulla porta di casa. Vorrebbe impedire che la figlia frequentasse quell’ambiguo cowboy, ma non ci riesce. I due continuano a vedersi di nascosto. Harlan intanto sviluppa una sorta di delirio, in cui progetta una fuga con Tobe, per regalarle la possibilità di una vita più felice. Ma Tobe, poco a poco, si rende conto della mitomania di Harlan, e – rinsaldati i rapporti famigliari – cerca di dissuaderlo dal coltivare simili fantasie. Un pomeriggio, Harlan si introduce nella casa di Tobe armato di una rivoltella e, dopo averla quasi costretta a scappare con lui, lascia che dalla sua rivoltella parta un colpo, che la ferirà gravemente, quasi sino a farla morire. Con la scaltrezza di cui Harlan è capace, cercherà di far ricadere la colpa sul padre di Tobe. E, dopo aver convinto il fratellino a scappare con lui sulle colline della San Fernando Valley, finirà per essere smascherato e ucciso dal padre di Tobe, in un finale scontro a fuoco. Tobe guarisce, sopravvive all’incidente, e porterà, insieme al fratellino, le ceneri di Harlan sul poggio da cui un tempo, lei e Harlan, guardavano la valle nelle giornate assolate. Lascerà che il vento disperda le ceneri di Harlan sulla San Fernando Valley, e dirà al fratellino: «Prega per lui».
DOWN IN THE VALLEY
Regia: David Jacobson
Usa, 2005
Drammatico
Con: Edward Norton, Evan Rachel Wood
Durata: 111 minuti
©, 2007
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