LE TRE SEPOLTURE Tommy Lee Jones western urbano una funebre amicizia
Prima e seconda sepoltura
Il tema della linea di confine Texas-Mexico ritorna, dopo “The Border – Frontiera”, a circa vent’anni di distanza, con un altro grande film, “Le tre sepolture”, nel quale Tommy Lee Jones – oltre che attore principale – è alla sua prima prova come regista. Prova superata brillantemente, per la capacità di dare voce al dramma del popolo messicano, ma anche di un’America minore, fatta di oscuri lavoratori e oscure esistenze, che su quel borderline che divide Texas e Mexico finiscono per incontrarsi, faccia a faccia, mescolandosi, e mescolando i rispettivi drammi. Nei pressi di El Paso (Texas) la polizia di confine, detta Migra dai messicani, svolge il suo alacre lavoro di pattugliamento per evitare l’afflusso clandestino di poveri diavoli in cerca di un cielo migliore sotto il quale vivere, accontentandosi di una magra paga e una baracca in cui riposare le ossa. Il cielo affogato nella calura, la polvere del deserto, il vuoto squallore delle cittadine di confine fatte di casette prefabbricate a un solo piano, ci parlano di un’America giunta al capolinea, oltre il quale non rimane che varcare quel deserto messicano, che lambisce gli abitati affacciati su trafficate Highways. Nel vedere queste scene si possono con la memoria risentire le note di un Tom Russell
o di un Calvin Russell, entrambi singers texani di grande profondità, con le loro storie di reietti e diseredati, che spesso stanno dalla parte sbagliata della Legge.
Una coppia giovane è appena scesa da Cincinnati. Lui è una guardia di confine, Mike Norton, lei la sua moglie bionda e carina, accanita fumatrice e così giovane e dolce da chiedersi cosa possa trovare di bello in suo marito. Vanno a vivere in una casetta prefabbricata ai margini di una rumorosa Highway percorsa continuamente da grossi camion che sollevano la polvere del deserto. Lui parte al mattino, completo di divisa, per il confine, dove tutti i giorni pattuglia a bordo della Jeep di ordinanza, munito di fucile di precisione e una copia di Hustler. Tra una canzone di Merle Haggard (Workin’ Man Blues) e una di Freddy Fender (Before The Next Teardrop Falls), le giornate seguono il loro corso, fatto di sporadiche scazzottate coi messicani e di retate. Mike non si mette in buona luce col suo superiore, dopo aver rotto il naso a una messicana sferrandole un pugno in pieno volto. Un mattino la moglie gli dice di tornare presto, che si annoia da morire. Lui le risponde di fare amicizia coi vicini. Ma lei nega questa possibilità. Al che lui le risponde che le comprerà il Nintendo. Un’altra giornataccia ha inizio sul borderline. Il sole, implacabile accecherà la ragione di Mike, troppo preso dal masturbarsi con Hustler sotto il cielo del Sud Ovest, per accorgersi che il messicano non stava sparando a lui, ma a un coyote che minacciava le sue pecore. Mike afferra il fucile di precisione e mira al petto da una distanza di 300 metri. Il messicano cade, colpito a morte. Tutto verrà messo a tacere. Ma il ranchero Pete Perkins (Tommy Lee Jones), amico del messicano ucciso Melquiades Estrada, non si darà per vinto.
Attraverso i sapienti dosaggi dei flash-back, veniamo a sapere che Melquiades era venuto a cavallo dal Mexico in cerca di lavoro come vachero in Texas. Lo soccorrerà Pete, con il quale nascerà una solida amicizia. Li vediamo in alcune scene condividere la dura vita dei cowboy, alle prese con marchiature e lunghe cavalcate nella selvaggia natura dell’Ovest. E poi alle prese con le belle donne del posto, Pete con la sua amante fissa e Melquiades con la moglie annoiata di Mike Norton. L’amante di Pete fa il triplo gioco con Pete, il marito – che dirige uno snack bar nel quale lei fa la cameriera – e un poliziotto, conoscente di Pete, che dovrebbe indagare sulla morte di Melquiades. Ma il poliziotto è troppo preso dalle sue nevrosi di impotenza sessuale, per occuparsi di un messicano morto. Pete gli sta alle calcagna, tanto da farlo quasi impazzire. Intanto Mike non sopporta più il peso del senso di colpa, e si desume che confessi tutto alla polizia. Perché l’amante dei tre uomini ascolta la verità dalla bocca del suo amico poliziotto, e lo va a riferire a Pete.
Qui inizia la necrofila trafila di Pete alle prese con Mike e il cadavere di Melquiades e il lungo viaggio verso il Messico. Dopo la prima sepoltura di Melquiades Estrada – seppellito in una fossa comune – sarà la volta della seconda sepoltura, quando, rapito nottetempo in casa sua da Pete, Mike, ammanettato e tramortito dal pestaggio di Pete, è costretto a riesumare il cadavere del messicano. A portarlo in spalla sino alla baracca in cui Melquiades dormiva. A vestirlo coi suoi vestiti e a caricarlo su un mulo.
La notte è alta, e il viaggio sarà lungo, sino a Himenez.
Terza sepoltura
Lee Jones regista sa usare in maniera sapiente e per nulla retorica i flash-back, ed è grazie ad uno di questi che apprendiamo che Melquiades, lontano da casa da cinque anni, ha come il presagio che non morirà in Messico, ed ha paura di venire seppellito “tra tutti i fottuti cartelloni pubblicitari”, in suolo americano. Consegna dunque a Pete una piccola mappa tracciata su un foglietto, nel quale indica all’amico gringo il percorso da fare per raggiungere Himenez, nel caso lui fosse morto in suolo americano; compito di Pete, quello di portare la sua salma nella sua terra, e lì seppellirlo. La profezia del messicano purtroppo si avvera. Sarà ammazzato da un gringo in suolo americano, e il suo corpo sarà sepolto in una fossa comune.
Il tema dell’amicizia, in questo western dal sapore antico, per quanto di ambientazione moderna, è portato sino alle sue estreme conseguenze da Tommy Lee Jones. Codici di comportamento arcaici, profondo senso dell’onore e della parola data, generosità e amicizia che vanno al di là delle diversità, sono il tema portante del film. Così come la solitudine dell’eroe, le sue morbose ossessioni che lo rendono un outsider alla Ethan (Sentieri Selvaggi), la noia di una qualsiasi cittadina del Sud Ovest, la corruzione delle forze dell’ordine locali. Miscela che compone un grande film western per quanto collocato in un tempo civilizzato, viziato, abitato da telefonini cellulari e potenti jeep al posto dei cavalli. Ma i sentimenti sono ancora quelli di John Ford e Sam Peckimpah.
La mappa segnata da Melquiades su quel misero pezzetto di carta è tanto vaga quanto perentoria nella sua valenza mitica e mistica. Vi è contenuta in essa tutta la potenza visionaria dell’avventura western. Un miraggio, un luogo di sogno, lontano, appena agognato, più con la fantasia che con reali e concreti dati di fatto. Pete è un eroe intransigente e idealista. Porterà a conclusione la sua missione, e si perderà in quel selvaggio Sud Ovest che l’ha generato dal nulla.
Pete guida in testa sul cavallo regalatogli da Melquiades. Mike, ammanettato e privato degli stivali, lo segue su un altro cavallo, un mulo porta le provviste e un ultimo mulo la salma di Melquiades. Procedono in fila indiana, a passo lento, su dirupi, canyon, mentre la polizia li segue a vista. Le sierras sono aspre e solitarie, come nella migliore tradizione western. I bivacchi alla luce del fuoco, sotto un manto di stelle, ci riportano a quell’implacabile spirito di frontiera mai sopito nel popolo americano, quella spinta verso un ideale di purezza e avventura che ha dato vita a questa Nazione forte, arrogante e contraddittoria, che sa però essere di una dolcezza a volte disarmante. Il poliziotto che ha in comune con Pete l’amante, dalla sommità di un canyon punta Pete nel cannocchiale del suo fucile di precisione. Ha un momento di indecisione prima di premere il grilletto, e in quell’istante gli squilla il cellulare. Scena bellissima, che denuncia quanto il western si sia adattato ai tempi attuali: < Sto lavorando >, dice alla donna il poliziotto. La vastità del deserto, quell’immane cielo che si stende sulla pianura sprofondata nell’immensità, sembrano così estranei a quella conversazione al cellulare. < Stesso posto stessa ora >, concludono i due amanti. Per un momento il mondo civilizzato, pressoché alle porte del deserto, fa irruzione in una scena di rarefatta selvaticità, corrompendo per un momento l’unione dell’eroe con la natura, trasformando il western in un noir cittadino. Ma il tono western riprende subito corpo, quando i due uomini giungono all’abitazione di un vecchio cieco che vive da solo, in completa miseria, ascoltando radio messicane per tenersi compagnia nella totale solitudine di quella baracca sperduta ai bordi del confine. Il vecchio, dall’olfatto fine, avverte puzza di marcio. Al che Pete dice di aver cacciato un cervo, che si sta decomponendo. Chiede al cieco se abbia del sale, ma questi dice di non averne nemmeno da metterne in tavola. Gli offre una tanica di liquido antigelo, che Pete travaserà nel corpo putrefatto del cadavere, per rallentarne la decomposizione. I tre mangeranno insieme una modesta minestra, e il vecchio, quando avrà ringraziato il Signore per la venuta di quelle brave persone, vuoterà il sacco della sua disperazione: il figlio, che ogni mese veniva a portargli delle provviste, si è ammalato di cancro, e non sarebbe più venuto. Implora Pete di sparargli, per porre fine alle proprie sofferenze e alla propria solitudine. Ma Pete non raccoglie quella richiesta, e si rimette in viaggio.
Le attenzioni che Pete tributa al cadavere di Melquiades sfociano nella necrofilia, in un patologico attaccamento al feticcio putrefatto della loro passata amicizia. Mike, sempre più stremato dalla marcia forzata, ammanettato e continuamente torturato psicologicamente da Pete, tenta la fuga. Verrà morso, in una grotta, da un serpente a sonagli. Ma lo salverà, con un’incisione e un decotto di erbe, la stessa messicana che lui aveva picchiato in volto. Ormai la Migra non li cerca più. I due, anzi, tre, sono ben oltre il confine. Ancora una volta si presenta una scena che attesta l’intrusione, nell’atmosfera western, di elementi tecnologici, civilizzati: un gruppo di rancheros messicani, seduti davanti al fuoco, nell’ombra di una profonda gola rocciosa, fissano un televisore – che trasmette un telefilm americano – probabilmente alimentato dalla batteria del loro fuoristrada. Accolgono i viandanti, regalando loro della carne fresca appena mattata, e del whisky. Mike scoppia in lacrime, riconoscendo il telefilm che guardava tutte le sere nel salotto di casa sua.
Finalmente raggiungono un villaggio, che non è Himenez. Di Himenez nessuno ha mai sentito l’esistenza. Ma la donna nella fotografia – la moglie di Melquiades – la conoscono, anche se non si chiama come Melquiades aveva riferito a Pete. Indicano una casa. Lì vive la donna. Che però si spaventa al cospetto del gringo venuto da lontano, con quella fotografia che la ritrae. Dice di non conoscere nessun Melquiades. Di andarsene via, per non metterla nei guai con suo marito. La moglie non era la moglie. Il paese non era Himenez. Ma Pete è convinto che Himenez esiste. Da qualche parte deve esistere. E troveranno Himenez. Un gruppo di case diroccate e bruciate. Quello era il luogo dove dovevano seppellire Melquiades. Rifecero il tetto a una casa, e sotto seppellirono il messicano. Bevvero del whisky. Pete disse a Mike di tenersi pure il cavallo. Quindi se ne va. Ma noi capiamo che non tornerà mai più a Nord. Resterà a vagare nel Messico, sino alla fine del tempo. E Mike – primo piano sul suo sguardo – per un momento ci apparirà nella sua straziante umanità.
LE TRE SEPOLTURE
Con: Tommy Lee Jones, Barry Pepper, Dwyght Yoakam, January Jones, Melissa Leo, Julio César Cedillo, Vanessa Bauche
Usa, 2006
Regia: Tommy Lee Jones
Western
Durata: 116 minuti
©, 2007
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