THE BORDER Frontiera Jack Nicholson le ragioni dei perdenti messicani
Confine tra cosa, e con cosa, sarebbe da chiedersi.
Anche tra di noi, e all’interno di noi, ci sono dei confini. Cosa separano? Cosa c’è oltre il confine?
Forse si dovrebbe cominciare con il parlare di un vecchio, capitale romanzo della letteratura americana: “Across The River and Into The Trees” (trad. it: “Di là dal fiume e tra gli alberi”), di Ernest Hemingway – con la celebre traduzione di Fernanda Pivano.
Qui Hemingway allude a un confine, quello tracciato dal fiume Tagliamento, tra Veneto e Friuli, terre a lui care. Cosa c’è tra gli alberi? Oltre il fiume?
Grande metafora che racconta di come, scampando agli orrori della guerra, un vecchio Colonnello dell’esercito americano sverni a Venezia, tra Martini Dry, avventure in gondola con una nobile di casata veneziana, battute di caccia in botte e tanta malinconia per la vita che fugge. Il confine è solo alluso, tra le pagine di questo bellissimo, decadente romanzo, ma sembra essere continuamente varcato interiormente, intrapsichicamente, dal vecchio Colonnello, il confine che lo divide dal passato, attraverso drammatici flashback di guerra, in notti insonni passate a raccontare a Renata, accompagnato dall’immancabile bottiglia di Valpolicella, quanto orribile fosse ciò che avevano visto i suoi occhi sui vari Fronti. Ci sono confini che noi varchiamo ogni istante, nella Nostra mente, quello fra nevrosi e psicosi, ad esempio, come diceva Freud, o tra sogno e realtà, come nei romanzi di Gian Dàuli, o tra presente e passato, e il vivere altro non è che un varcare continuamente questi confini, The Border non sarà mai del tutto oltrepassato, si torna sempre indietro, per poi superare il confine nuovamente, in un costante varcare la linea di confine, che, a questo punto, non si può più considerare una linea netta, ma una zona allargata, nella quale avvengono le Nostre metamorfosi esistenziali. In quanto presente nel ricordo, la guerra del Colonnello non era del tutto passata, e il Colonnello non aveva del tutto raggiunto, e forse non li ha raggiunti mai, gli alberi oltre il Tagliamento. Eden irraggiungibile, forse, quanto quello agognato dai cicanos messicani, i cosiddetti wetbacks, o “spalle bagnate”, della cultura Texmex, nel film The Border, con Jack Nicholson e Harvey Keitel, un film del 1982, in cui i due ranger statunitensi sono impegnati a fronteggiare l’immigrazione clandestina a El Paso (Texas), lungo la linea di confine segnata dal Rio Grande, che divide gli USA dal Messico.
Qui il confine non divide metaforicamente Nostre parti psichiche, o immaginarie fantasie, ma separa nettamente, drammaticamente, il mondo progredito dei consumi e del capitalismo occidentali, dalla povertà assoluta del Messico, grande realtà umana che preme drammaticamente e spasmodicamente sulla linea di quel torrentello che è il Rio Grande, che tanto facile è superare pagando un mafioso locale, che garantisca al cicano una qualche occupazione oltre il confine, per poi esserne espulso alla prima retata, dettata da amministrative necessità di ristabilire un equilibrio tra afflusso (illegale-legalizzato) ed espulsioni. Qui le pedine del mercato illegale dell’immigrazione sono in mano a meccanismi economici e politici basati sull’esistenza di un confine reale, geografico e politico, che non è concesso di superare, una linea che sancisce per gli Americani lo stato di supremazia, e per i Messicani quello di sottomissione e asservimento. Il divieto amministrativo di superare il confine, sembra anzi garantire agli imprenditori di El Paso e dintorni – che godono della collusione dei rangers – la possibilità di reclutare illegalmente manodopera messicana a basso costo, col continuo ricatto dell’espulsione, se il cicano dovesse ribellarsi alle condizioni di estremo sfruttamento cui è assoggettato.
La linea di confine in “The border” sembra anche separare la Legge dalle molte occasioni che si presentano per trasgredirla, anche a costo di fare dei morti. Charlie Smith (Jack Nicholson) e sua moglie Marcy (Valerie Perrine) si trasferiscono da un imprecisato luogo del Sud Ovest, dove vivevano pacificamente in una roulotte, per svolgere il mestiere di poliziotto di confine a El Paso. Sin dalle prime scene, si coglie che Charlie è in pieno burn-out per un mestiere in cui non crede, soprattutto per un ruolo che rappresenta un ordine statale in cui Charlie ha finito di credere. La moglie – ossessionata da frenesie piccoloborghesi – sogna una casa comoda ed elegante, e convince Charlie ad acquistare la villetta di El Paso accanto a quella di una sua vecchia amica. Mentre Charlie sogna di tornare a fare la guardia ecologica in mezzo a foreste e anatroccoli, la moglie cerca di convincerlo dell’ottima scelta compiuta, quella di essersi arruolato nelle guardie di confine della città texana e, quando lui esprime il desiderio di tornare a fare la guardia ecologica, la moglie lo costringe a restare nei rangers. Qui la vita si presenta subito molto dura e pervasa da un grande, angosciante senso di vuoto. Gli spazi sono vasti, enormi, assolati e impolverati dal deserto. Il Messico è alle porte, e il mestiere di pattugliamento non è più che una routine noiosa per i rangers, che sono costretti a fermare sempre gli stessi individui, che ci riproveranno dopo poche ore, magari all’imbrunire.
Il vicino di casa, Cat (Harvey Keitel) in questo film dai grandi pregi narrativi e sociali, impersona la spregiudicatezza cinica e aggressiva dell’Americano conformista e ipocrita, che sfrutta il disagio e la povertà altrui a proprio vantaggio, sotto l’egida della Legge. Come in altri film sulla linea di confine (“Stella solitaria”, “Le tre sepolture”, e in parte “Blind Horizon”), la storia è collocata in una zona geopolitica dove la Legge – data la vastità e la dispersività del territorio – può essere regolata a proprio piacimento. E a proprio vantaggio da parte di chi detiene il potere, delle armi, e dei soldi.
Le splendide musiche di Freddy Fender e Ry Cooder ci seguono, quindi, tra dirupi scoscesi e polverosi, in inseguimenti spesso mortali. L’angoscia del popolo Messicano è panica e totale, che si fa vento e sabbia che acceca la coscienza di Charlie che, dopo aver accettato di diventare un poliziotto corrotto, su offerta di Cat, assume su di sé il senso di colpa degli interi Stati Uniti, e cerca di espiarlo pagando a una ragazza Messicana, che segue sin dall’inizio della storia, il viaggio oltre il Rio Grande. Il loro è un legame inespresso, fatto di teneri sguardi di qua e di là del fiume. Charlie farà di tutto per riportarle il bambino che un losco mercante di anime messicano le ha rapito, per venderlo al prezzo di 25 testoni a una famiglia di ricchi americani.
Jack Nicholson dà in questa pellicola una magistrale interpretazione di quella che può essere la tenerezza e l’amarezza di un poliziotto, alle prese con un mestiere odioso e una moglie avida. Un uomo estremamente solo, capace di eroismi compiuti nell’ombra, senza il plauso di nessuno.
Infine, è da rilevare anche la presenza, nel cast, di un bravo attore, dal volto abbrutito, noto a tanti della mia generazione per la visione di quei telefilm polizieschi e western che fecero i Nostri pomeriggi alla fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80: il buon Jeff Morriss, nei panni di J. J., uno losco trafficante di anime dalle convinzioni grette e sudiste, che farà una brutta fine.
THE BORDER – Frontiera
Regia: Tony Richardson
Con: Jack Nicholson, Harvey Keitel, Valerie Perrine
Drammatico
Durata: 104 minuti
©, 2007
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