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Come altrove ebbi modo di confessare, all’attacco di una Via, o durante l’avvicinamento, se sapevo di dover affrontare una salita estrema, faticosa, e molto rischiosa, venivo colto dal terrore che si convertiva in mal di pancia.
Stranamente, quando volai a testa in giù, per 15 metri, e rischiai davvero di morire, non ebbi paura ma, come scrissi nel romanzo Reggae bang bang, provai esattamente ciò che Reinhold Messner riporta nel suo libro/inchiesta “Il limite della vita”: una sconfinata sensazione di benessere.
Nonostante avessi solo 15 anni, affrontavo la Montagna con assoluta prudenza, e preparazione. Non lasciavo nulla al caso. Né nell’allenamento, né nella preparazione dello zaino, o del vestiario, che, allora, era quello di tutti i giorni (non esisteva alcun tipo di abito “tecnico”, solo qualche esempio molto costoso e “modaiolo” – del tipo di ciò che indossava chi si sentiva un po’ più fico degli altri – di pile).
Quando, all’attacco di una Via, ci si imbragava e legava, io disponevo con molto ordine quella quindicina di chili di ferraglia ad anelli e bandoliera, in modo da non lasciare al caso nemmeno l’eventuale movimento che avrei dovuto compiere, per afferrare un cordino o un moschettone. Sapevo che, anche un lieve sbilanciamento in quel frangente, poteva significare il disastro, la morte, mia o dell’intera cordata.
Quando il Dante ed io partimmo una notte da Valmadrera alla volta della Val Bregaglia, il tempo era incerto.
Ricordo che, la sera prima, a casa del Dante, il pavimento del suo ampio soggiorno era interamente ricoperto dall’attrezzatura necessaria per affrontare – l’indomani – una Via molto misteriosa, molto poco praticata, forse potenzialmente mortale, comunque una Via di cui nemmeno le Guide stampate riportavano il tracciato: la Giovanoli al Pizzo Balzetto.
Dante me ne aveva parlato come del mio vero e proprio “battesimo” al vero, grande alpinismo (peccato che, da lì a poco, abbia abbandonato completamente questa attività … o per fortuna …).
A vedere quattro metri quadrati di stanza interamente ricoperti di pezzi di ferro, corde, cordini, moschettoni, fettucce, scalette californiane (fatte da me, a mano, e cucite da mia nonna) (dette staffe) chiodi in acciaio temprato, alcuni molto grossi, altri sottili come un coltello (knife-blade),
avevo già un forte batticuore: perché capivo che, ciò, era la dimostrazione che stavo finalmente per affrontare una grande parete, una Big Wall.
Ho sempre amato scherzare, sin da bambino. Ma in quegli anni, si stava temprando in me una nuova, più seria disposizione di fronte alla Vita. Molto lontanamente, quasi a livello puramente e solamente teorico (mai avrei potuto credere realmente che una salita avrebbe potuto uccidermi) mi stavo confrontando col tema della Morte. Tutta quella attrezzatura, da mettere i brividi, era il segno che, lassù, ci si doveva difendere – in un corpo a corpo serrato, attimo dopo attimo, magari per 15 ore continue – da quella insidiosa Dea e Falcidiatrice – nascosta tra le nubi, ma più propriamente nascosta dentro di te, nei tuoi cedimenti, nelle tue distrazioni, nei tuoi a volte inevitabili errori – che è la Morte.
Il tempo, alla partenza, in macchina, con la bella macchina del Dante (Dante ha sempre avuto belle macchine!) … il tempo prometteva di guastarsi. Ed io mi sentivo … salvo! Non avrei mai e poi mai salito la Giovanoli.
Ma, verso il Lario, il cielo iniziava ad aprirsi. Nell’aurora incipiente, attraverso squarci di giorno che si aprivano nella notte, si vedevano ampie porzioni di cielo azzurro, lucente come uno Zaffiro.
Ero perduto…
Pochi giorni prima, sullo “Scarpone”, appresi, dal “necrologio”, della morte di un giovanissimo alpinista come me: lo vedevo praticamente tutti i giorni ai Giardini Pubblici di Porta Venezia; con lui mi allenavo sotto il Ponte di Ferro, sulle roccette di conglomerato artificiale, tra la polvere della Metropoli e le pisciate dei cani (non solo dei cani…), e – facendo sino allo sfinimento interi traversi, da destra a sinistra e da sinistra a destra, arrivavamo a farne una quindicina ogni tardo pomeriggio, sino all’imbrunire – progettavamo le nostre future salite: il temibile Couloir ghiacciato del “Fiammifero” – in Albigna, proprio dove stavamo andando il Dante ed io – se l’era portato via per sempre.
Si andava a braccetto con la Morte. Si apprendeva della scomparsa di un tuo compagno, che avevi visto la settimana prima, o su un sentiero, o ai Giardini. Non c’è retorica in quello che sto dicendo, ma una profonda commozione. Ancora non capisco cosa potesse spingere me, e altri della mia età, a fare quelle cose. Come giustamente aveva teorizzato Gian Piero Motti – nel Nuovo Mattino – per Noi la Montagna era fonte di Gioia e di Vita, e alla Morte non ci pensavamo affatto, diversamente dai Nostri predecessori, magari infarciti di retorica fascista, di regime, ma erano passati almeno cinquant’anni da quando imperversava quella visione eroica e mortifera, della Montagna. La Morte ci coglieva, magari col sorriso sulle labbra, in un momento di vera, ultima FELICITA’.
A Vicosoprano la funivia ci porta in quota, alla Diga dell’Albigna.
Molti, ma molti anni dopo, appresi che lo scultore Alberto Giacometti era di lì, e che un suo parente era stato proprio il custode di quella funivia.
Alberto Giacometti ai piedi dello spigolo nord del Badile, a sinistra nell’immagine la parte occidentale del Pizzo Cengalo
Molti, ma molti anni dopo, imparai ad apprezzare la pittura e, con essa, il Divisionismo rivoluzionario di Segantini che, proprio su queste Montagne, aveva eseguito i suoi più grandi capolavori… avrei letto Nietzsche … avrei vissuto a Venezia … le albe invernali a Torcello con C*** non erano poi dissimili dalle albe su queste Montagne…
La funivia si stava inoltrando tra le nuvole. La puleggia cigolava sul cavo, in un silenzio sospeso, gravido. Con noi, c’era la guida Alpina della Bregaglia Renata Rossi.
«Ciao Dante – intanto mi fissa, e io fisso quello scenario che lentamente prende corpo fuori dai finestrini, ho il cuore in gola, ma a un certo punto, avverto il battito farsi sempre più lento, sto andando in bradicardia – cosa andate a fare?»
«La Giovanoli, sul Balzetto…»
«- La Renata mi fissa, dice, rivolta a me: complimenti … quanti anni hai?»
«Diciassette», dico io.
Nessuno dice più una sola parola. A parlare, è la puleggia che ci sta portando in quota, che buca lo strato di nubi, e ci apre allo scenario sconvolgente di un Anfiteatro di Granito dalle proporzioni e dalla grandiosità quasi ultraterrene, con forme a pinnacoli così contorte e severe, di una roccia così scura e scabra, da dare quasi la nausea. E’ qualcosa di bellissimo, di mai visto da occhi umani, di sconvolgente e terrorizzante. Non è la Montagna a cui sono da sempre abituato, con le sue forme morbide e rassicuranti. Ma qualcosa di simile a una Fucina Infernale.
Le pareti – cumuli di roccia dalle forme rotte, interrotte, spaccate, frastagliate e cuneiformi, davvero sublimi, orrorifiche – svettavano, così incombenti, che dovevi alzare la testa, per vederle, altrimenti ti soffocavano, ti schiacciavano.
Eppure, sui pendii più lontani, lo scenario era di una dolcezza estrema, come seppe ben rappresentare Segantini nei suoi quadri.
Scendiamo dalla funivia. Prima di prendere sentieri diversi, la Renata dice al Dante un’ultima cosa: «Il tracciato è incerto, probabilmente non ci sono chiodi, non la ripetono da cinquant’anni… dalla sua apertura… buona fortuna… ciao.»
L’avvicinamento all’attacco della Via è già di per sé una vera e propria ascensione. Solo l’avvicinamento ci richiede un’ora e mezza, ad andar veloci, e con la massima prudenza, perché vi sono passaggi già molto duri e rischiosi.
Ci leghiamo. Diversamente dal solito, non diciamo una parola. Non facciamo una sola battuta scherzosa. All’attacco delle Vie in Grigna, di solito si dice anche qualche barzelletta. In quel momento, eravamo zitti, concentrati, forse anche impauriti. Io, lo ero di certo.
Senza aspettare un minuto di più, Dante si stacca dal pratone erboso, e si inoltra in una infinita placca di granito scuro, orizzontale, lievemente inclinato, che corre come una ferita in mezzo a due lingue di ghiaccio (seraccate) alte una quindicina di metri. Dal ghiaccio cola dell’acqua che rende la placca – già di per sé difficile – scivolosa. Quando finalmente esce dal corridoio ghiacciato, vedo, a metà di quell’interminabile traverso, Dante appoggiarsi in ginocchio, fermarsi, e piazzare un chiodo. Sento i rintocchi cupi del martello nell’immane vuoto, in quella solitudine che corre sino al cielo, rimbalza fra le rocce. Toccherà a me tentare di recuperarlo.
Dante mi grida di partire. Avanzo su quel terreno insidioso. Sento le scarpette scivolare sul granito, non fare presa, per via dei rivoli d’acqua che scendono dalla seraccata. Eppure, ho già abbastanza esperienza per sopperire con scaltrezza alla mancanza di aderenza dei piedi. Giungo al chiodo. Compio il mio primo, grave errore: inizio a dargli delle martellate a destra e a sinistra, per levarlo dalla fessura, senza aver prima passato un cordino nell’anello, ed essermelo assicurato addosso. Era la prima volta che mi toccava sfilare un chiodo. E fallii. Nonostante avessi letto e riletto il Bernard Amy, mi ero concesso di non assicurare a me stesso il chiodo che, all’ultimo colpo di martello, schizza via, e io non faccio in tempo ad afferrarlo. Rotola giù per quel piano inclinato tintinnando diverse volte, sino poi a non tintinnare più: sarebbe precipitato per 600 metri. Infatti, la placca scendeva per una cinquantina di metri inclinata, poi, per un improvviso taglio operato dalla natura, precipitava dritta, a valle, per mezzo chilometro. Vidi – proiettata nel volo di quel chiodo – la mia stessa, probabile fine.
Giunto al punto di sosta, chiesi scusa al Dante per avere perso il chiodo. Lui non disse niente. Avevamo ridotto l’attrezzatura al minimo indispensabile. E superava già i venti chili. Perdere un chiodo, prima ancora di avere iniziato la salita vera e propria, non era uno scherzo.
Dante mi indica l’attacco vero e proprio della Giovanoli. Il suo dito punta verso un luogo sprofondato un centinaio di metri sotto di noi. Dovevamo procedere a lungo, in una discesa che prometteva di essere davvero pericolosa. Si doveva guadagnare una cengia, alla fine di un percorso di placche in aderenza senza alcuna possibilità di protezione. E, sotto di Noi, quei fatidici 600 metri di vuoto. Senza neanche poter dire: abbiamo iniziato la Giovanoli: quello era ancora il cosiddetto “avvicinamento”.
Sto per affrontare uno dei 3 passaggi che hanno segnato la mia – sia pur breve, ma intensa – carriera alpinistica. Segnato con la paura, col terrore, ma anche con un senso di enormemente liberatorio scampato pericolo, come una seconda o terza nascita, una volta superati.
In quegli istanti sei come di fronte a un plotone d’esecuzione. Sai che stanno per premere il grilletto su di te. Ma alla fine, dagli Alti Comandi, arriva l’ordine di graziarti, e tu letteralmente RISORGI.
Ho sotto di me una placca a schiena d’asino. Sembra proprio una schiena d’asino. Sprofonda verso il basso per almeno cinque metri. La difficoltà, a vista, potrebbe essere un VI. Completa aderenza, da percorrere in discesa. Dante non me l’ha detto, ma ha compreso che io ho compreso: nessuno dei due è assicurato. La roccia è talmente compatta, da non poter inserire un solo chiodo, nemmeno sottile, né un minuscolo dado (nut).
A trenta metri da me, su una cengia, Dante mi sta facendo sicurezza a spalla. Se io volassi, farei un volo di 60 metri, trascinando con me Dante in quell’ulteriore salto di 600 metri che ci attende lì sotto.
Metto un primo piede, in aderenza, sulla placca, tentando un primo, timido, troppo timido approccio col vuoto più completo. Sento di stare sbagliando qualcosa. Mi sento incerto, non padrone. Dante percepisce qualcosa. Qualcosa di molto brutto. Grida:
«Porco***iooo!!! Buttati in fuoriii!! O perdi l’aderenza e voliii!!!»
All’istante risalgo di quei pochi centimetri di cui ero sceso.
Non conoscevo le Arti Marziali. Ma feci qualcosa di simile alle Arti Marziali. Stetti un tempo indefinito, forse interi minuti, a fissare un punto indistinto sotto i miei occhi, e a respirare profondamente. Era come se aspettassi che fosse la roccia stessa a chiamarmi.
E così fu.
Quando partii, compii una serie concatenata di movimenti, talmente calibrati e veloci, da farmi superare come in una danza quel passaggio su cui, se mi fossi fermato a pensare, sarei finito per uccidermi. Quel “Buttati fuoriii!!”, stava a significare che, posizionato frontalmente alla placca, dovevo usare le braccia, come leve, per spingermi verso il vuoto. In modo da far discendere il mio peso sulle suole delle scarpette, e generare l’aderenza. Ma se mi spingevo troppo, in fuori, venivo risucchiato di sotto. Stava a me percepire sin dove avessi dovuto “spingermi”, fino al punto massimo, oltre il quale il baricentro sarebbe “uscito” da me stesso, facendomi precipitare. Fu un esempio di raffinatissima tecnica in aderenza, su un passaggio di VI, fatto a vista, al “primo colpo”; il secondo, non ci sarebbe stato. Raggiunsi il Dante. Colsi in lui la felicità, ma era livido in volto. Eravamo già stanchi. Da quel momento, ci attendeva la Giovanoli al Pizzo Balzetto: un tracciato incerto, per altre 15 ore di salita.
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Se dopo avere letto il tuo racconto, Andrea, per lunghi e lunghi minuti ho sentito risuonare nelle mia mente il tintinnio del chiodo perso, e poi il silenzioso ronzare del suo precipitare per centinaia di metri… Ecco, non posso che dirti: «Bravo!». Ho sempre pensato alle analogie che accomunano chi scala una montagna e chi doppia Capo Horn a vela… Forse c’è più chiarezza e sincerità, meno protagonismo, tra i “montanari” che non tra i “marinai”. E questo è dovuto, anche, al rapporto fisico, diretto, da corpo a corpo, che ha con la parete colui che la scala. (Personalmente, io, del mare riesco a scrivere soprattutto usando metafore, immagini quasi oniriche, nostalgie di tutto l’inafferrabile, e l’inafferrato…) Mi permetto una osservazione “critica”: secondo me lo scrittore Di Cesare dà il meglio di sé in racconti di questo tipo, dove lascia de-cantare a valle (come il famoso chiodo) le sue rabbie socio-politico-culturali.
Se dopo avere letto il tuo racconto, Andrea, per lunghi e lunghi minuti ho sentito risuonare nelle mia mente il tintinnio del chiodo perso, e poi il silenzioso ronzare del suo precipitare per centinaia di metri… Ecco, non posso che dirti: «Bravo!». Ho sempre pensato alle analogie che accomunano chi scala una montagna e chi doppia Capo Horn a vela… Forse c’è più chiarezza e sincerità, meno protagonismo, tra i “montanari” che non tra i “marinai”. E questo è dovuto, anche, al rapporto fisico, diretto, da corpo a corpo, che ha con la parete colui che la scala. (Personalmente, io, del mare riesco a scrivere soprattutto usando metafore, immagini quasi oniriche, nostalgie di tutto l’inafferrabile, e l’inafferrato…) Mi permetto una osservazione “critica”: secondo me lo scrittore Di Cesare dà il meglio di sé in racconti di questo tipo, dove lascia de-cantare a valle (come il famoso chiodo) le sue rabbie socio-politico-culturali.
Grazie Luciano. Apprezzo sinceramente questo tuo commento. A presto!