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Intervista a Phil LaMarche a cura di Andrea Di Cesare
L’intervista si è svolta il 22 giugno 2007 nel corso delle due giornate in cui Phil LaMarche è stato in visita a Milano per presentare al pubblico e alla stampa “American Youth” (Ed. Bompiani, 2007).
D: In questi giorni sto finendo di leggere il suo libro. Come è stato individuato ieri in conferenza, sembra anche a me un libro dai toni molto antichi, tradizionali, mi ha ricordato la buona tradizione del romanzo Americano, come in Hemingway, o Sherwood Andreson…
R: certamente…
D: Complimenti, c’era bisogno di un libro così, che rinnovasse secondo la tradizione la letteratura Americana, perché ci son state troppe mode, a mio avviso, negli ultimi vent’anni, che hanno allontanato gli scrittori Americani dal mito ancestrale dell’America…questo era solo per avviare la conversazione. In verità mi sono preparato quattro domande, posso iniziare?
D: potrebbe descrivermi lo stile di vita nella città dove ha trascorso la sua adolescenza? Ha qualche analogia con quella descritta nel libro?
R: la cittadina di cui parlo nel libro è in effetti molto simile alla cittadina in cui sono cresciuto. Probabilmente la differenza tra lo stile di vita – e comunque l’esperienza di Teddy e la mia – è che forse Teddy ha un’eredità famigliare più forte e più radicata nel posto in cui vive rispetto alla mia, perché i miei genitori si sono spostati nella città in cui io poi sono cresciuto verso la fine degli Anni’70, con un’esperienza, una storia ed un retaggio che invece aveva più a che vedere con la zona quasi al confine con il Canada, nella parte settentrionale degli Stati Uniti. La storia del libro è ambientata nel New Hampshire, mentre la mia famiglia viene dalla zona a Sud di Montreal, nella parte più a Nord dello Stato di New York.
D: una storia del genere, secondo lei, sia nella narrativa che nella realtà, nella cronaca, è collocabile in una grande città Americana?
R: sì, effettivamente la storia di un territorio, comunque di un paesaggio che cambia è abbastanza tradizionale nella cultura degli Stati Uniti. In questo caso, il fatto che ci siano due culture, la cultura rurale e la cultura suburbana, che si uniscono, fa sì che questa narrativa sia una narrativa tra virgolette vecchia, una cosa che si ripete nella storia Americana.
Quindi, questa idea del territorio, del paesaggio che cambia è un’idea che, forse, per questa storia, è più vicina all’America rurale, quindi alla piccola cittadina, ma è vero anche che, così come la storia tradizionale dell’America è quella degli Europei che sono arrivati, e che poco alla volta hanno mandato via i Nativi Americani, qui la cosa si ripete; per esempio, adesso a New York ci sono zone come Brooklyn, o come Harlem, o come il Bronx, che stanno diventando sempre più borghesi, con nuovi blocchi di persone che stanno mandando via i vecchi abitanti. Sicuramente la mia storia ricade meglio in un contesto più rurale, o comunque di piccola cittadina, ma è anche vero che, nello stesso tempo, attualmente, negli Stati Uniti queste cose succedono, avviene questo continuo cambiamento del territorio, del paesaggio.
D: adesso io sto un po’ divagando, sto un po’ uscendo dalla traccia che mi ero scritto… mi è venuta in mente anche questa domanda: il suo stile è tipicamente del Nord – mi sembra – però mi viene in mente uno scrittore, Faulkner, che ha uno stile completamente diverso dal suo, per quanto le storie narrate da Faulkner siano abbastanza simili alle sue… mi viene quindi da chiederle: ha per caso attinto a qualche matrice sudista, non in senso politico, ma in senso geografico e culturale, per definire l’aspetto profondo, di questa storia?
R: è una domanda piuttosto interessante, perché effettivamente io ho letto Faulkner, e ho letto diversi altri scrittori del Sud degli Stati Uniti, e mi è sempre molto piaciuto questo loro modo di scrivere che è abbastanza tipico del Sud degli Stati Uniti, un pochettino gotico…nelle bozze iniziali di questo libro io ho cercato di utilizzare, inizialmente, un linguaggio abbastanza simile al loro, un po’ ornato, gotico, e ho cercato di trasferirlo in questo contesto suburbano; pensavo che sarebbe stato interessante trovare una soluzione di questo genere. Però, le prime bozze che ho mostrato ovviamente al mio mentore e anche ad altri scrittori che conosco, e con i quali collaboro, non hanno avuto un riscontro particolarmente positivo, perché, più o meno, mi è stato detto che non riuscito veramente a gestire questo stile come avrei dovuto, e i passaggi che invece avevo scritto secondo uno stile più minimalista erano piaciuti molto di più, per cui loro stessi mi hanno consigliato di rimanere su un lato minimalista che non su un lato gotico che, sì, era interessante idealmente, ma non mi veniva molto bene. Così, lentamente, mi sono mosso verso questo stile maggiormente minimalista, forse perché mi risultava più semplice, anche perché ero più giovane, e mi risultava più naturale come linguaggio da impiegare, anche se è sicuramente vero che sono stato parzialmente influenzato dagli scrittori del Sud.
D: nella cultura Americana bianca, i riti di passaggio dall’adolescenza all’età adulta sono sempre e comunque traumatici come quelli che lei ha descritto nel suo libro?
R: no, direi che, certo, non è mai un periodo facile, non è mai un passaggio facile, però questa, descritta nel libro, è un’esperienza eccezionale, e appunto per questo si fa leggere.
D: e se ne fa un libro…
R: esatto.
D: ci sono molti film comunque, che sono arrivati anche in Italia, sulla cultura delle High School e dei College, nei quali ci sono riti di passaggio tra le congregazioni, che segnano anche dei momenti duri e cruenti nella vita degli adolescenti; adesso forse esco un attimo dal tema strettamente legato al suo libro, ed entro nel tema delle scuole americane…secondo lei sono veritieri questi film?
R: non posso parlare di tutte le scuole americane in generale, perché, chiaramente, non riuscirei a parlarne con un profondo livello di accuratezza, ma posso dire che recentemente c’è stata una fortissima stretta contro la violenza nelle scuole in America, c’è tolleranza zero, non è più permesso nessun genere di lotta all’interno delle scuole, non si entra, assolutamente, non solo con armi, ma neppure con oggetti appuntiti, ci sono addirittura, in alcune scuole, negli Stati Uniti, i metaldetector all’entrata; quindi questo sta a confermare la realtà del passato, effettivamente c’è stata parecchia violenza nelle scuole, adesso però la situazione è tolleranza zero. Poi, è vero che l’adolescenza – non so se in termini assoluti – tende alla creazione del branco, si tratti poi del gruppo sportivo, piuttosto che del gruppo sociale che ha interessi politici, o che si tratti invece delle posizioni più estreme, come quelle di cui parlo nel mio libro, in fondo ha relativamente poca importanza, in quanto qui c’è l’intera gamma dei gruppi, dal club dove si gioca a scacchi, che può avere i fini più benevoli dell’universo, fino alla gang violenta, tutto ciò può far parte dell’adolescenza, poi ovviamente alcuni di questi gruppi hanno obiettivi assolutamente benevoli, altri invece obiettivi violenti.
D: è una questione di identità…
R: pensò di sì, perché, andando al di là dell’adolescenza, l’essere umano è un animale sociale, quindi cerca il contatto, cerca l’identificazione con gli altri, cerca anche il conforto degli altri, quindi è normale che tenda a raggrupparsi, per cui l’adolescente, che non è più un bambino, e che non è ancora un adulto, tende comunque a volere tutte queste cose, e quindi automaticamente è portato ad avvicinarsi a gruppi di persone della sua stessa età.
D: adesso le farò una domanda che va un po’ sul personale, alla quale è libero anche di non rispondere: si ricorda qualche fatto saliente del suo rapporto con suo padre, o col mondo adulto, che ha poi trasposto nella storia di Teddy?
R: sì, ad esempio, ricordo che mio padre, come si racconta nella storia, quando io ero al Liceo, è andato via da casa per motivi di lavoro, e quindi lo vedevo ogni tanto al week-end, o durante le vacanze, altrimenti era via per l’intera settimana, e a volte per più settimane, piuttosto che anch’io ho avuto a che vedere, ogni tanto, sempre per cose abbastanza banali, con la polizia locale, ed è vero, così come racconto nella storia, che anch’io ho avuto un’esperienza di forte vicinanza con un mio zio.
D: quanto di Phil c’è in Teddy?
R: cinquantatré virgola cinque per cento! No scherzo…però diciamo che Teddy è una versione estrema, o estremizzata, di me, nel senso che avrei potuto, in fondo, essere molto simile a Teddy, poi sono successe evidentemente cose diverse. Teddy si sente più isolato, nonostante anch’io mi sentissi, durante l’adolescenza, abbastanza isolato, ma lui si sente più isolato di me. Nonostante anch’io, in qualità di adolescente, abbia avuto sentimenti molto simili a quelli di cui racconto nel libro a proposito di Teddy, i suoi sono forse un po’ più forti. Io posso ricordare, per tanti versi, la figura di Teddy, però – anche per rendere più interessante la lettura – il tutto è stato portato all’estremo, è stato un pochettino come alzare il volume.
Si ringrazia, per il suo prezioso contributo, la Dr.ssa Antonella Zucchelli che, grazie alla sua traduzione simultanea, ha reso possibile questa intervista.
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