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D: I tuoi studi, la tua formazione, hanno da subito riguardato la moda, la fotografia e il fashion, o sei arrivata a questo settore per vie diverse?
R: Da altre vie; prima di arrivare alla moda sono passata dalla comunicazione, dal visual design, ho studiato qui a Milano visual design, laurea in art-direction e pubblicità, poi sono passata alla moda, ma solo successivamente. Sono dapprima andata a lavorare all’estero, a New York e a Londra, e ho acquisito un’esperienza lavorativa sul campo, e dopo un master in fashion design il mio obiettivo era quello di realizzare un mio marchio, una mia linea di abbigliamento.
D: Il mondo anglosassone ha influito sulle tue scelte estetiche?
R: Decisamente; credo che se non fossi andata a Londra, o comunque all’estero, a vivere e a formarmi, credo che avrei avuto una mentalità diversa. Credo che questo mi abbia aiutato ad aprirmi mentalmente, ad avere uno stile più nordico, non solo nella moda, ma nei miei gusti musicali, e cinematografici (…)
R:Sì. Ciò ha influito molto. Anche dal punto di vista del modo di comunicare.
D: Parliamo di comunicazione. Qual è la differenza fra l’aspetto comunicativo italiano e quello anglosassone?
R: In Italia siamo, direi, ancora statici. Nel mondo anglosassone, stando alla mia esperienza, posso dire che c’è molta più apertura e possibilità. A livello di comunicazione c’è la voglia di osare.
D: Apertura e possibilità; apertura verso cosa, e possibilità di che cosa?
R: Apertura anche dal punto di vista della vendita del prodotto. Un prodotto giovane ha più possibilità di essere accettato sul mercato, diversamente che qui in Italia. Viene accettato come qualcosa di nuovo, che può produrre una nuova tendenza, può influire.
D: Meno prevenzione verso il nuovo, il giovane.
R: Sì. In Italia, a livello di mercato, c’è prevenzione verso ciò che è giovane.
D: Quindi apertura verso ciò che è nuovo, giovane. E possibilità di che cosa?
R: A Londra, ad esempio, il Governo supporta i giovani marchi, i giovani designer vengono supportati al cento per cento, con una serie di bandi di concorso, ma anche di sovvenzioni che vengono date a fondo perduto. Agevolazioni che qui in Italia sono totalmente ferme. Il supporto, in Gran Bretagna, per i nuovi marchi parte dal Governo, e arriva alla pubblicità; i giornali sono attirati dal marchio nuovo.
D: In Italia parte tutto da un pubblico un po’ infantile che vuole sicurezze, certezze.
R: Sì. Se qui in Italia non abbiamo una rete di agenti forti non facciamo nulla.
D: All’estero un creativo può lavorare in prima persona.
R: Sì.
D: Viviamo in un paese adagiato sul suo passato, in cui c’è troppa cultura, una cultura vecchia, statica.
R: Penso che l’Italia debba fare uno sforzo ad aprirsi verso qualcosa di nuovo, e più giovane. Qui in Italia si punta sempre a privilegiare chi è stabilizzato. Ci sono concorsi che, comunque, tendono a premiare sempre e comunque solo aziende che sono stabilizzate almeno da 10 anni.
D: E’ sempre un mistero qui in Italia come uno riesca ad acquisire quei 10 anni.
R: All’estero si punta sulla forza dei giovani che escono dalle scuole e, invece di andare nelle grandi case di moda, si mettono a creare qualcosa di loro. A New York ho visto la stessa mentalità, lo stesso tipo di supporto verso i giovani. Ho potuto comunque riscontrare questa attitudine anche in Germania e in Belgio.
D: Ma come mai si dice che la moda, il gusto siano italiani, e poi qui in Italia c’è una situazione di stagnazione simile?
R: Alle spalle abbiamo una storia della moda molto potente, dal ready wear degli anni ’70, passando dal prệt-à-porter; in questo l’Italia ha ancora una sua forte identità, perché se la paragoniamo a Berlino o ad altre città del Nord, vediamo che lì ci sono interi quartieri tutti uguali, contraddistinti da marchi globalizzati molto omogenei; in Italia c’è più identità, anche se la paghiamo con una mentalità più statica.
D: A me questa globalizzazione affascina, questo linguaggio del vestiario universale. Però mi fa anche un po’ paura. Non è un po’ pauroso?
R: Sì, perché ci sono dei costumi tipicamente italiani che, se veniamo globalizzati, rischiamo di perdere; uno stile di vita che, se viene spopolato, perde un certo tipo di mistero, di fascino e di identità tipicamente italiane. L’Italia mantiene comunque il primato, perché ci sono realtà che risalgono a identità storiche, i negozi e la distribuzione più forti sono in Italia, il bello è il prodotto italiano, un prodotto che mantiene un’immagine e una manifattura che sono perfette. Anche uno street wear come il mio, un po’ concettuale, all’estero fa gola, in quanto made in Italy, più che in Italia stessa.
D: Mi sembra che tu colga del Nord gli aspetti di maggiore libertà comunicativa ed espressiva, mantenendo però un prodotto fortemente legato al gusto e all’identità italiane, per la qualità e la manifattura.
R: Sì, questa è la parte centrale, perché io desidero creare e mantenere un prodotto che sia fatto qui, in Italia, che del gusto italiano abbia qualità e fascino. Oltre che belle rifiniture e precisione, che sia perfetto, ma aperto al nuovo.
D: Quindi dinamismo europeo e gusto italiano.
Lo sguardo sul mondo di un artista che si occupa di comunicazione e fashion design, oggigiorno, a cosa deve essere attento? Cosa un artista oggi non deve farsi sfuggire? Di un mondo in continuo cambiamento, che si sta avvicinando sempre di più a una forma di omologazione dei gusti? E di estensione delle paure? La gente ha molta paura.
R: Secondo me un artista deve mandare il messaggio che bisogna cercare di mantenere una certa individualità. Cercare di non farsi influenzare troppo da quello che sta succedendo. Altrimenti cambia la percezione delle cose.
D: In un’epoca in cui tutto ormai è immagine, c’è ancora spazio per l’immagine?
R: Secondo me c’è ancora spazio per l’immagine, voglio essere positiva. Però è difficile trovare qualcosa che ancora colpisca in maniera forte, qualcosa di assolutamente nuovo. Che colpisca, e riesca a evolvere sopra gli altri. A spiccare.
D: C’è una produzione di immagini che colpisce la memoria a breve termine, però a lungo termine si perde tutto.
R: Sì.
D: Calimero non l’ha più inventato nessuno.
R: No.
D: Neanche l’uomo in ammollo.
R: Oggi, secondo me, c’è il troppo. Una via per difendersi da questo è mantenere la propria identità, magari cercandola nel proprio passato, per poter ri-creare qualcosa di nuovo. Altrimenti abbiamo di tutto di più. C’è confusione e si fa fatica a scegliere.
D: Quali rapporti ci sono tra le tue creazioni e i tuoi gusti musicali e cinematografici?
R: Sono molto forti. Il mio marchio è nato come qualcosa che possa occuparsi di arte con qualsiasi tipo di diramazione, dalla letteratura alla musica al cinema. Cerco un prodotto che abbia delle forti influenze anche da altre correnti artistiche. Mi piace anche produrre videoarte e performances; in me è molto forte l’influenza della musica, nordeuropea e soprattutto british. Parto da queste influenze nel tentativo di arrivare, comunque, a un prodotto pulito, che abbia un concetto ben chiaro, infatti si chiama conceptual-streetwear.
R: Grazie.
Intervista a Maristella Colombo – FASHION-DESIGNER
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