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A partire dagli anni ’90, in Europae in Italia, si è sviluppata una volontà di ripensamento e razionalizzazione dell’intervento pubblico in fatto di cultura, complici le esigenze di risanamento dei conti pubblici. Entra in crisi la concezione che individuava nell’attività culturale un valore in sé, in grado di autogiustificarsi, in quanto astrattamente necessario ad una non meglio precisata collettività e possibile oggetto di finanziamento a fondo perduto, indipendente da variabili quali la redditività e il raggiungimento di un effettivo bacino d’utenza. Di conseguenza, attualmente, si è verificata la convinzione che criteri manageriali debbano sovrintendere ad attività di carattere culturale. In ambito territoriale, spazi urbani mutati cambiano velocemente il loro volto, subendo trasformazioni nell’identità culturale originaria; aree un tempo a concentrazione demografica subiscono, repentinamente, fenomeni di spopolamento migratorio, altre zone, scarsamente popolate, ora si vedono rapidamente trasformate in spazi congestionati. Interi quartieri industriali vengono dismessi e tendono al degrado, ponendo il problema della loro riconversione. Tali problematiche, ormai da anni, occupano gli amministratori non solo a livello locale, gli operatori sociali e culturali e gli urbanisti di tutta Europa. Occorre comprendere come l’idea di cultura, la stima delle esigenze culturali, in ambito territoriale, si inseriscano nei progetti di riordino, riconversione e pianificazione urbanistica, e quale parte spetti alla programmazione di attività culturali all’interno dell’azione stessa di utilizzo, sviluppo e riconversione dei nuovi spazi. Le biblioteche, i teatri, i musei, gli spazi ricreativi, si inseriscono nella progettualità urbanistica come effettivi motori di aggregazione e, dunque, come agenti primari nella pianificazione geografica e sociologica del territorio, oppure trovano collocazione in quanto entità chiuse ed impermeabili e difficili da posizionare su una scacchiera di intervento avulsa dal contenuto delle loro attività? Questo il punto cruciale per la definizione delle nuove strategie di gestione delle istituzioni culturali, degli attori che le gestiscono e le progettano e dell’impatto che possono avere in ambito sociale ed educativo. Occorre dunque ripensare la cultura e gli interventi in tale settore, in relazione alle peculiarità, alle funzioni che presentano, ai bisogni a cui rispondono e alle mutazioni del paesaggio territoriale quotidiano. Il ripensamento della spendibilità culturale in ambito educativo può rappresentare una nuova frontiera, per le istituzioni culturali stesse, per la loro funzione sociale. Le istituzioni e le associazioni che gestiscono la cultura devono, dunque, affrontare la sfida più difficile: dare vita, avviare una coscienza ecologica, una cultura ambientale che non si giustifichi in sé, ma che trovi la sua ragione ontologica nello spazio in cui è inserita, in una nuova concezione di qualità dell’esistenza. Come l’ecologia ha portato alla ribalta problemi relativi alla natura, scoprendone i disagi sopiti e determinando così una presa di coscienza, ed una graduale sensibilizzazione, così, la cultura e l’operatore chiamato ad operarvi, si trovano di fronte ad una sfida nuova, determinata da nuove condizioni urbanistiche, educative e sociali. La scommessa del futuro consiste, dunque, nella gestione ottimale dell’impatto culturale: contribuire alla crescita formativa dell’individuo, inteso come elemento fondamentale nell’organizzazione sociale di una comunità, il quale svolge un compito che la pubblica amministrazione deve sviluppare, a partire da un programma di interventi volti alla formazione umana e alla diffusione della cultura.
Risulta evidente il bisogno di creare i presupposti necessari allo sviluppo di nuclei culturali stabili, collegati a strutture permanenti e supportati da una forte progettualità, che sia in grado di trarre ispirazione da un intenso legame col territorio, valorizzando le specificità locali intese come risorse, tradizioni e storia, sempre mantenendo una flessibilità che permetta di adattarsi ai mutamenti sociali e strutturali, attualmente, così frequenti. Da qualche anno si sta sviluppando, specialmente in area anglosassone, un ripensamento in tale direzione, e si assiste alla nascita del concetto di “pianificazione culturale”, ovvero, l’idea di come un approccio/apporto culturalmente cosciente, possa comportare una sorta di correttivo etico alla pianificazione del territorio. “Gli urbanisti – scrive lo studioso australiano Mercer – creano spazi, e le comunità, nella loro vita quotidiana, creano, invece, luoghi spesso in contrasto con le intenzioni originali degli urbanisti”. Occorre espandere gli orizzonti degli urbanisti, allargare la loro agenda attraverso la consultazione e la ricerca sul territorio, andando oltre l’estetica decisa al tavolo da disegno. L’uso integrato e strategico delle risorse culturali può rispondere al bisogno di espansione di orizzonti. Uso integrato perché l’elemento culturale chiede di non essere delegato ad una riflessione a posteriori, di non intervenire dopo che tutte le decisioni chiave siano già state prese, ma di parteciparvi in modo strutturale. Uso strategico, perché si inserisce in una prospettiva più ampia di sviluppo territoriale, e stabilisce interconnessioni con lo sviluppo economico e industriale, con iniziative per la giustizia sociale, con le attività ricreative, le politiche culturali, dei lavori pubblici, dell’educazione. Se, alla definizione estetica di cultura come arte, si aggiunge la dimensione di cultura come modalità dell’esistenza quotidiana, non solo le forme di espressione creativa, non solo i processi di apprendimento, ma appunto le attività del quotidiano e del tempo libero, il dato culturale diventa fonte di innovazione e dinamismo nei processi urbanistici e paesaggistici, di pianificazione dell’assetto territoriale. Cultura non intesa come risorsa da sfruttare più o meno responsabilmente e confinata negli edifici ad essa deputati, i musei tradizionali, i teatri, le sale da concerto, ma piuttosto produzione culturale come processo creativo, autopoietico, come approccio impegnato concretamente, eticamente, come modo di pensare e di progettare, perché, come sosteneva Gramsci “cultura è anche organizzare la cultura”.
“Gli amministratori locali dovrebbero riflettere su quanto hanno da imparare nei processi di pensiero propri della produzione culturale”, scrive il professor Bianchini, “tali processi relativi alla produzione di cultura sono totali, flessibili, reticolari e orientati all’esperimento, all’originalità e all’innovazione. Pongono domande e lanciano sfide, sono umanistici e centrati sugli individui e privilegiano il dato qualitativo al quantitativo”. Il dialogo tra le competenze culturali, gestionali e programmatiche ha dunque maggiori possibilità di risultare proficuo se il rapporto si inverte: se ci si pone il problema di aumentare il livello delle competenze culturali delle figure professionali addette alla programmazione, se la produzione culturale viene proposta come processo di pensiero progettuale da applicare agli operatori socioculturali come propositori, e agli amministratori che attuano decisioni politiche anche sulla pianificazione dell’assetto territoriale. L’obiettivo focale consiste dunque nell’armonizzazione del territorio, tramite la messa in atto di strategie capaci di rendere dinamici gli ambiti rigidi precedenti, nella valorizzazione dello spazio culturale comune, collettivo con le relative diversità e tradizioni, al fine di incoraggiare la creazione culturale, rendere fruibile l’accesso a quest’ultima, la diffusione dell’arte nel dialogo interculturale, multiculturale, considerando le molteplici diversità sottese non solo all’etnicità, ma alla soggettività individuale: il tutto in una prospettiva di valorizzazione della conoscenza storica del territorio in cui viviamo. L’importanza di figure professionali attente alla parte socioculturale dei progetti delle amministrazioni, risulta evidente anche in campi educativi, dove si evidenziano positivi effetti sui processi di apprendimento, socializzazione e formazione dell’identità di individui, soprattutto in età giovanile, e in modo più lato sulla prevenzione o la riduzione della marginalità sociale, grazie al coinvolgimento profondo e dinamico delle risorse umane, culturali. L’obiettivo consiste dunque nel favorire una maggiore sensibilizzazione del tessuto sociale alle problematiche dei giovani, degli anziani, degli immigrati ed extracomunitari, e di coloro che vivono uno stato di marginalizzazione, al fine di creare la nascita di nuove sinergie, nell’evidenziazione di nuove risorse, tramite la valorizzazione e il recupero di nuovi spazi e strutture inutilizzate o sottoutilizzate, al fine di creare musei interculturali, laboratori della memoria per il diritto al racconto di sé e alla narrazione reciproca. Per questo occorre analizzare e stendere mappature dei contesti sociali, creando contemporaneamente un ventaglio di risposte e di interventi possibili, coinvolgendo, in tali processi di attuazione progettuale, le varie istituzioni e agenzie educative e di volontariato culturale, a fianco dei cittadini, poiché subentra l’esigenza di partecipare alla trasformazione del territorio, non più considerata come attività esclusivamente e meramente politica, ma soprattutto un processo culturale che vede coinvolti una molteplicità di attori sociali. Il nuovo ruolo dell’ente locale e di chi collabora con esso, non consiste esclusivamente nel fornire servizi o sovvenzioni a pioggia, ma partecipare consapevolmente alla comunità, all’autodeterminazione culturale, in una prospettiva educativa militante di valorizzazione delle risorse umane, e, di conseguenza, culturali esistenti, nella promozione del benessere sociale e dell’innalzamento della qualità della vita. La sfida lanciata alle istituzioni è volta a non considerare il patrimonio artistico e ambientale solo in termini di profitti nella loro gestione e di riscontri materiali, meramente individualistici, ma soprattutto come parte integrante della vita sociale collettiva e culturale del mondo contemporaneo. In questa rinnovata concezione del patrimonio artistico e culturale si inseriscono la nascita, l’attuazione e il coordinamento di realtà museali ed ecomuseali, che si pongono come entità più ampie, comprendenti una riflessione complessiva, aprendosi ad un sistema di correlazioni e interconnessioni, di coordinamenti organici, che restituiscono ad un’identità particolare, specifica, una situazione di insieme.
Mentre in Italia si realizzano musei di stampo ottocentesco, i paesi di cultura anglosassone hanno già da tempo apportato, ai musei, necessari cambiamenti in linea con gli stessi insegnamenti scolastici e pedagogici presenti in tutte le scuole, dove, in sostanza, il museo svolge una primaria funzione educativa, e la sua realizzazione è sempre più dettata dal grande bisogno di sapere reale e materiale insito in ogni realtà museale: perché esistono le città? Perché il rinascimento è a Firenze? Perché esistono popoli con altre fedi e religioni? Questi sono gli interrogativi cui gli operatori culturali sono chiamati a rispondere, affinché gli oggetti, i monumenti, le testimonianze, non si riducano a mere cose inanimate, ma costituiscano simboli in grado di comunicare il valore storico ed emotivo del nostro passato.
Un museo non deve costituire esclusivamente un’astrazione nell’ordine storico, poiché raccoglie oggetti appartenenti a tempi e luoghi diversi, ricombinandoli e istituendo un nuovo percorso che non sempre conserva le tracce del tempo, ma deve porsi l’obiettivo di commemorare le funzioni specifiche del territorio e dunque riprodurre l’autenticità delle cose, proponendole ad una seconda vita, quella dei posteri, riconsegnandole al futuro, mantenendo la sensazione di un rapporto diretto col futuro, “per una nuova didattica dei beni culturali e ambientali”, grazie a quello che Lucien Febvre chiamò “spirito geografico”, il “genius loci” che è in grado di riconoscere il profondo rapporto tra il suolo, il territorio, e la storia. Di conseguenza, secondo quest’ottica, si deve valutare l’impatto non solo culturale, storico, ma anche sociale che l’istituto museale o ecomuseale può assumere nella società odierna, affinché si cominci a parlare, sia in Italia che in Europa, non solo di monete e di politiche economiche, ma delle persone e delle comunità, delle loro storie e delle loro culture, per gli obiettivi comuni di sviluppo delle conoscenze e delle azioni che possano promuovere una vita migliore in un habitat umano migliore, dal momento che è in gioco la nostra memoria collettiva allo scopo di unificare una comunità, un popolo, ed è pertanto ancora necessaria, soprattutto nell’età della globalizzazione, in cui occorre anche il rispetto e la valorizzazione delle diversità e delle differenze come elementi vitali dell’insieme. Da questo punto di vista l’Europa di cui siamo parte è una terra di memorie, di linguaggi e luoghi che devono essere tutelati e messi in condizione di rapportarsi vicendevolmente, perché nel grande fiume della storia confluiscano in un insieme, in una complessità più ampia. In nome del recupero di una memoria comune, i musei e gli ecomusei svolgono certamente un ruolo primario, non celebrativo, ma critico, sollecitando le inflessioni relative ai problemi dell’identità locale e nazionale, al di là di certe vicende storiche particolari o congiunturali, perché è proprio l’ingresso nella modernità che obbliga ad una verifica critica delle nostre storie e tradizioni. Relativamente ai beni culturali, siamo circondati e quasi sommersi da una ricchezza che spesso però sperperiamo, mentre sarebbe opportuno fare di tale patrimonio una parte anche della nostra coscienza civile. Nell’epoca di un diffuso turismo di massa, risulta opportuno riconoscere che il paesaggio costituisce un volto complesso, un libro scritto da altre mani, altri occhi, altre ansie e desideri, e in tale prospettiva gli ecomusei devono contribuire a creare una mentalità nuova, che sarà tanto più moderna e proiettata verso il futuro, quanto più riconoscerà che anche il passato rientra nella modernità. Una volta recuperata la solidarietà con la madre terra, che abbiamo perduto, potremo finalmente affermare che lo “spirito geografico”, il senso reale della natura, come storia e cultura, può diventare parte anche della nostra etica civile quotidiana.
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