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Ci sono i duri fasulli, che hanno maniere e parole da duri.
Ci sono poi i duri veri, che hanno maniere gentili e parole sempre molto pacate, e non oltraggiose.
Quale dei due è più pericoloso?
Sono pericolosi entrambi.
A seconda della situazione. A seconda di come tu ti rapporti a loro.
In linea di massima, il finto duro è più pericoloso. E’ imprevedibile. Fa uso di sostanze per caricarsi. E non le sa controllare.
Il vero duro, a volte può usare le sostanze anche lui. La sua disperazione è più profonda, solida e metafisica, come un disincanto sul Monto e sulle Persone che lo rendono remoto. Per questo, una fuga nella chimica gli è di tanto in tanto necessaria. Ma la sa controllare. Come qualcosa di Sacro, di cui egli coglie la Potenza, e ne ha rispetto. Lui, la droga ricreativa, non sa nemmeno cosa sia. La lascia alla gente comune, o ai finti duri, ai vanesi.
Il vero duro – per chi lo conosce, o ne conosce la categoria – è prevedibile. Con lui, certe cose non le devi fare. Certe cose non le devi dire.
Col finto duro, stralunato dalla sua vacua Volontà di Potenza deformata da psico eccitanti, anche una parola gentile si può risolvere in un percepito insulto, e la lente deformante della sua psicopatia potrebbe far sì che lui ti si rivolti contro come una vipera. E, come una vipera, è strisciante e debole, per questo morde per primo.
Dal finto duro, al limite, se giochi di rimessa, puoi aspettarti qualche azione dolorosa, ma non letale.
Se hai a che fare con quello vero, non metterti nemmeno a difenderti, perché la tua fine è già decretata. Se, anzi, gli dichiari anticipatamente una resa, lui forse ti perdona, e ti risparmia.
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Il duro vero, non ha tempo da perdere. O mani da sporcarsi ulteriormente. Generalmente non vuole altri guai, in aggiunta a quelli che l’hanno via via reso un duro, in un curriculum che puoi decisamente vedere nel fondo dei suoi occhi. Ha imparato a discriminare il necessario dal superfluo. Certi alterchi, per lui sono inutili, come polvere sulle spalle, della quale ogni tanto si libera, con una leggera e decisa scrollata. Per questo, potrebbe risparmiarti. Non ama la violenza, perché non deve dimostrare niente a nessuno, e nemmeno a se stesso. E nemmeno alla sua donna. Il vero duro potrebbe anche non averla, la donna. E’ veramente in pace con se stesso.
Diversamente, il finto duro ha troppo da dimostrare, soprattutto alla pupattola che si porta appresso. Se hai una disputa con un finto duro, vedi bene che non sia presente la sua pupattola. Potrebbe aggravare il tenore delle sue reazioni.
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Me ne andavo in giro una notte afosa a ridosso di ferragosto. Passeggiavo nelle grandi periferie a Nord, che cingono come un salvagente gli scali merci e le brughiere non ancora edificate, oltre il vecchio quartiere di Greco-Pirelli, nei pressi della dismessa fabbrica della Breda, fra atmosfere che sanno di polveri rugginose e fischi lontani di treni stanchi. Qui, le case hanno il sapore del vecchio vino rancido nei fondi dei bicchieri, di stanze ammobigliate da poveri magrebini o cingalesi allo sbando, di stracci lasciati ad asciugare nei monolocali disadorni di schiere di nuovi poveri e proletari dalle mani tuttavia pulite del nuovo millennio. Ci vive anche una piccola borghesia che è sbucata fuori dal secolo appena morto come sopravvissuta agli stenti proletari, e resistita alle intemperie come un legno vecchio e tenace, asciugato al sole. Un vecchio legno di fiume, lavorato da decenni di abrasione e esposizione alle intemperie, che lo hanno reso scuro, forte, inflessibile, un vecchio arbusto che non teme più nulla.
Qui, ho incrociato per una decina di minuti un vero duro. Un tale che aveva dentro di sé la disperazione metafisica di chi ha praticato il Male con assoluta crudeltà, e ne è uscito pulito davanti agli uomini, ma non davanti a Dio. Di chi ora è un uomo sfatto, forse a causa di problemi endocrini o di dilagante diabete, facilmente aggredibile, ma che tuttavia possiede ancora un’aura di comando nel proprio limitato territorio, e pianifica a distanza, senza temere nulla, né per sé, né per la vecchia sua madre – con cui sta conversando amabilmente, in compagnia del fidato suo cane bastardo – e sorbendo un caffè notturno.
Hanno entrambi le braccia allungate sul tavolino, con le dita che lambiscono ognuno il proprio pacchetto di sigarette, posato ordinatamente accanto all’ accendino. La madre, che veste un abito da mercato di tessuto stampato a fiori e già vecchio e logoro dopo due lavaggi, che la fanno sembrare una figura resa spigolosa e irrigidita dall’artrosi che riempie un sacco, conserva ancora – forse da un passato di ricchezza sfumata – velleità scenografiche, come i brillantini che impreziosiscono le sue povere ciabatte da mercato, la custodia dell’accendino Bic e gli orecchini dozzinali che le pendono dai lobi esausti.
«Sono passato all’Isola, in Via*** al bar, dove vendono – fa un cenno con le dita sotto il naso, come ad annusarsi l’indice, ovvero, l’atto di sniffare della coca, un gesto che compiono solo le persone di un certo ambiente, senza mai nominare quella sostanza – e ho visto che la Francesca se la sta passando mica tanto bene.»
L’Isola è un vecchissimo quartiere che sino a non pochi anni fa era sede di piccola malavita abitato anche da un vasto e onesto proletariato e schiere di artigiani, che l’edificazione del ricercato obbrobrio del nuovo quartiere Garibaldi – col suo cazzuto Bosco Verticale – ha irrimediabilmente snaturato, facendo alzare vertiginosamente i prezzi delle case di chi vuole andare a vivere in un quartiere alternativo, e – per farlo – non ha altra alternativa che sborsare cifre molto poco alternative, che sfiorano il raggiro e la truffa, così come, da raggiro, è diventato il prezzo delle consumazioni in tutta quella schiera di localini dall’aria vagamente parigina.
Tuttavia, resiste la consuetudine di spacciare in enclavi di ligera, nome che veniva dato alla piccola malavita del posto, che si spingeva sino alla vicina Brera. Da qui, l’appoggio non dichiarato di capoccia & discotecari prestati alla politica negli Anni’80 (quelli della “Milano da Bere”), ed edonisti & mafiosi assortiti, ha fatto dilagare la cocaina in tutta Milano. Coi ricchi borghesi di Brera, il malavitoso come questo vecchio residuo di un proletariato che in tempi passati ha fatto i soldi in maniera poco lecita, mantenendo il proprio accento “rispettabile”, milanese, allobrogo, ci ha sempre avuto a che fare, ma non è mai andato a viverci a Brera, se ne è sempre tenuto alla larga. Né tantomeno adesso andrebbe all’Isola ad abitare, va solo al suo vecchio bar a controllare la situazione. Per poi riferire alla madre, che dei suoi traffici deve essere la vera manager. Lui, è il figliolo fidato, che va in giro, a regolare i conti, a dare ordini, ordini presi da sua madre. Con la sua mole obesa e sfatta, che non teme aggressione alcuna, perché lui è il Boss. E se gli fai del male, fai anche del male, gravemente, a te stesso.
E’ affascinante e davvero inquietante avvertire il tono da milanese di altri tempi, dedito a piccoli e onesti commerci, pacato, ma deciso, molto dignitoso, in un corpo peraltro sfatto e apparentemente indifeso, appartenenti a quello che, di primo acchito, e senza troppe approssimazioni, deve essere un vero boss in stile Napoli. Veste una ampia camicia a fiori, e un logoro giubbotto da pescatore blu, con le tasche molto piene, ma la pancia enorme fuoriesce incontenibile, e sul petto gli pende la custodia di un vecchio cellulare di prima generazione: ecco la nota distintiva del Capo, di chi comanda: a lui non interessa essere interconnesso, lui non cerca nessuno, dello smartphone non se ne fa un cazzo, lui sai dove trovarlo, ti basta chiamare il suo cellulare, lui è il Capo, non è un giovane uomo che ancora scodinzola di fronte al potere altrui, e per questo necessita dello smartphone, lui non ha più ambizioni, lui ha raggiunto tutto, lui non cerca più nulla, al limite, viene cercato.
«Quando il papà comprava, andava meglio, laggiù. Ora faccio un giro in Solferino. Giuseppe non c’è più. Ha cambiato zona.»
Cita vie di lusso, fatte di una loro aura alternativa costruitasi dagli anni’60 agli ’80 grazie alla presenza dell’Accademia di Belle Arti e di locali un tempo frequentati dal mondo artistico, ma che, col tempo, hanno rivelato il loro marciume nascosto e ben sedimentato fra le pieghe di una borghesia viziata, viziosa e ambigua.
La madre assente. Si accende una sigaretta. Non ho ancora capito se i due abbiano compreso che, ogni tanto, li osservo, li disseziono, e ascolto attentamente quello che si dicono. Forse mi considerano una persona distratta, e parlano liberamente. Quando sono arrivato, ero impegnato in una innocua conversazione al cellulare, con mia madre, da perfetto coglione senza arte né parte, e forse questo li ha fatti sentire al sicuro. Eppure, il locale che lui ha citato, lo conosco, e ora so che lì spacciano. Non me ne farò niente di questa informazione, mi limito solo a metterla in questo racconto.
Ormai, il tizio mi sembra di conoscerlo da diversi giorni. Mi ricorda un mio vecchio amico, un tipo anche lui della ligera della zona. Aria rispettabile, cadenza pacata, vecchia Milano diciamo “rispettabile”, ma dalle mani sporche. Non tardo a riconoscere in questo boss i tratti dell’uomo fiammingo, dall’incarnato roseo, il lungo naso adunco, e le labbra tagliate in una espressione di disprezzo. Che ben si adattano alla voce, che ti aspetteresti acuta e da eunuco, in un corpo così, e invece è virile, sicura, imperiosa, oltre che ben modulata, educata, che non accetta repliche, né le dà.
Non mi hanno mai rivolto lo sguardo. I duri, e i malavitosi, non ti guardano mai in faccia, e tantomeno negli occhi.
Decidono di andarsene. Il figlio riporta il vassoio con le tazzine dentro. Da bravo ragazzo, sa le regole della buona educazione. Siede un momento, per riprendere il fiato. Il cane infossa la testa tra le sue ginocchia. Lui, abbassa il mento, compiaciuto, facendo allargare la pelle in eccesso della gota, che diviene una sorta di flaccido collare, in cui il mento, appuntito, va ad annegare, compiaciuto del proprio potere, un cane devoto è un succube che un Capo non può che amare, vedendo nel cane riflessa la stessa immagine del proprio dominio. Il crudele volto fiammingo si allarga in un sorriso che manifesta la vampa aliena di un Male che risorge dalle ceneri, gli occhi, di un azzurro lucente, mandano guizzi di cristallo. Si alza.
La madre, pure lei, si alza, la posizione la costringe a mettersi di fronte a me. Di faccia. Ma i suoi occhi evitano i miei. E solleva il mento, come una donna che ribadisce il proprio orgoglio ferito dopo aver subito uno stupro. Nel non guardarmi, dichiara l’alterità di un antico, sedimentato, risentimento verso tutto, e tutti.
Li vedo andare via, uniti, madre e figlio, in questa missione terrena che li vede perdenti con Dio, perché con lui hanno voluto gareggiare, assumendosi un fallace diritto di Vita e di Morte, la Parola che sancisce il tuo Destino. Ma con gli uomini, in parte hanno vinto, e continuano a sopravvivere fra queste strade, anche se – scommetto – ogni dieci passi, entrambi si guardano alle spalle.
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Per concludere, devo dire che il duro fasullo è ancora un essere umano.
Il duro vero, invece, è – come direbbe Nietzsche, o come direbbe Alessandro Gertschl – ultra-umano, super-umano: è oltre la morale stessa, è a-morale, in senso divino. Questo ce lo rende davvero alieno, terrifico, meglio non averci a che fare.
Meglio avere una disputa con un finto duro, i suoi cazzotti possono farti male, ma sono ancora cazzotti umani, di una persona a te simile, che, alla fine, potrebbe diventarti anche amica.
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