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Il film vincitore della 63^ Mostra di Venezia è un film cinese del trentasettenne Jia Zhang-Ke.
La storia è ambientata a Fenjie, nella zona delle Tre gole, un villaggio sommerso dalle acque del fiume Yangze, per permettere la costruzione di una diga. Vi ritorna dopo 16 anni di assenza Han San Ming, alla ricerca della moglie e della figlia che non vede da allora. Durante la ricerca trova impiego come operaio nelle imprese edili incaricate di demolire gli edifici che verranno sommersi.
Il regista, pittore di formazione, ci presenta uno splendido quadro di una provincia cinese, dai toni limpidi, acquosi, come è impregnato d’acqua tutto il paesaggio. In questa natura morta l’acqua è più viva che mai, nella sua azione di annientamento di luoghi e persone. Dove arriva il fiume, tutto, compresi storie e ricordi viene lavato via.
Le persone che sono rimaste, continuano a vivere come impermeabilizzate a tutto quello che arriva dall’esterno, concentrate esclusivamente sull’abbattimento dei palazzi. Anche il protagonista, che non è della zona, ma lì è arrivato nel tentativo, nella speranza di ricostruire la sua vita affettiva, in realtà, si trova costretto, prima di riuscirci, o meglio se mai ci riuscirà, a partecipare a quest’opera infinita di accanimento demolitore sul paesaggio.
Il tempo sembra non contare: sono passati sedici anni prima di decidersi a ritrovare la moglie e ne può passare un altro prima di riacquistarla, nel vero senso della parola. Lo stesso per un’altra donna che attraversa la parte finale del film come un malinconico fantasma, anch’essa alla ricerca del compagno di un tempo. L’immobilismo involontario, ma a cui presto si fa l’abitudine, è il sentimento dominante di questi personaggi, tutti immersi nelle proprie solitudini.
La macchina da presa, con discrezione e pudore, si avvicina e sofferma sui personaggi, fissandoli in lenti gesti, eseguiti ripetutamente, senza calore, senza convinzione. Si avvicina, ma si arresta quando il limite diventa invalicabile: un attimo prima cioè che l’intimità venga allo scoperto
STILL LIFE, un ritratto crudele della Cina che guarda al futuro, alla modernizzazione, dimenticando ciò che sta alle spalle, alla base di questo processo, e, soprattutto, incurante degli alti costi umani.
Immagine tipo di questo meccanismo inarrestabile, a cui ci si abbandona, come al destino, che procede lentamente, ma inesorabilmente, è l’illuminazione del ponte, fresco di inaugurazione, mentre attorno, sull’acqua, come sulle povere case lì attorno, regna il buio.
Non brancola nel buio, invece, lo sguardo del regista, che guarda al suo paese con severità, ma pur sempre capace di restituircene scorci di una bellezza infinita.
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