IL BUON ETHAN E IL RICORDO DI ASA WILGUS – racconto
(Chiedi alle Montagne)
collana Medusa
Il ricordo di questo libro affonda nella mia giovinezza, al tempo delle grandi indiscriminate letture formative di ogni tipo.
Oggi è una giornata di nevischio ghiacciato, che ti cade dritto addosso sulla giaccavento, producendo quel crepitio fitto, nel silenzio della Città addormentata in una Domenica di gelo. Venti chili di spesa, stipati nello zaino, stanno per essere portati da tua madre, ma le gambe, dopo un po’ di cammino, ti fanno male. Non hai più la resistenza di quando scalavi le montagne con questo stesso peso sulle spalle. Anche se la giaccavento e lo zaino erano simili. Anche questo nevischio, alle alte quote, era in tutto simile. E anche il corrispettivo silenzio.
Entri in un bar, che già conosci. Siamo al limite delle periferie urbane, dove iniziano a raccogliersi caseggiati popolari abitati da gente povera e molto disagiata. Nell’unico bar aperto nella zona, oggi, siedono un magrebino di mezza età, e altri tizi – tutti uomini – italiani, con facce intagliate nel disagio, modellate dagli stenti, quello più anziano, forse anche da una sottostante psicosi e certamente dalla malavita.
I toni meridionali, di quel meridionalismo nordico urbanizzato e mai veramente integrato, si accordavano all’aspetto della padrona, che teneva quel bar da trent’anni, nel più completo squallore, e ti veniva il dubbio che non fosse per caso un luogo di mafia. Il magrebino, che diceva di lavorare come uomo di fatica, indossava abiti firmati, e si scambiava confidenze con un italiano più giovane di lui, reclinato sul proprio bicchiere di birra, eloquio lento, stentato, impedito dai farmaci, forse psico-farmaci, esprimeva tutta l’insicurezza e la fragilità di una persona che ha duramente lottato, e, forse, ora, senza darsi per sconfitto, aspira ancora all’amore di una donna.
Stanno parlando di una loro comune amica, il giovane riferisce tutte le proprie incertezze, mi fa una tenerezza infinita, non recita la parte del macho, ne parla con rispetto, con timore, ma non da perdente, o da sconfitto in partenza, e questo mi piace, faccio dentro di me il tifo per lui.
In questo bar si raccolgono le speranze di uomini che attendono. Proprio come in quel bel vecchio racconto di Asa Wilgus, strorie di emarginati che nonostante tutto lottano, non cedono, anche se il loro aspetto ti potrebbe far supporre il contrario.
E poi c’è quello che chiamano Capitano, un tizio distinto sulla cinquantina, ma più verso la sessantina, una figura fiera, orgogliosa, nell’abito sportivo di ottima qualità, nel suo silenzio che esprime una sorta di “sciopero delle parole”: «Come va Capitano?» «Tutto bene, tutto bene, si tira avanti.» E resta appoggiato al frigorifero, fissando un punto del pavimento, nella dignitosa composta attesa di qualcosa. Penso abbia avuto un lutto, un lutto femminile, la madre, l’amatissima moglie. E adesso, attende. Attende anche lui qualcosa. Cerca di non lamentarsi. Cerca di non ascoltare il proprio dolore. Cerca di non esprimerlo per non vederlo. E attende, come uno che abbia fatto una radiografia, e attenda l’esito. Una roba normale, in fondo. Anche la Morte, in fondo, è una roba normale.
E poi, entra una donna, bassa e infagottata in vari strati di maglioni, avvolta in un lacero giaccone marrone, coi doposci ai piedi. Il volto ha un colorito bronzeo, lungo e levigato, pende verso il mento con una serie di incisioni nella carne ormai flaccida, ma dai tratti fini, che rivelano una antichissima, preistorica bellezza, cancellata da notti e giorni tutti uguali, passati ad attendere cose che non arrivano mai, e ti scavano gli occhi, e ti fanno crescere quelle borse terribili, attorno agli occhi che, tuttavia, guardano il prossimo ancora con immensa benevolenza, senza alcun rancore, senza voler fare scontare agli altri le ragioni delle proprie pene. Faccio il tifo anche per lei. Pago. Ho un lieve moto di commozione in fondo alla gola, cerco di reprimere un pianto di cui vorrei non vergognarmi. Carico lo zaino in spalla, e vado ad attendere l’autobus. Attendo anch’io qualcosa.
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