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Sono passati troppi anni. Mi sembra un furto. Essere già arrivato ai 52 anni, così. Cosa mi resta da vivere? E come sarà la restante parte della mia vita? Mi sembra ieri, quello che ho appena ricordato. Eppure, in mezzo c’è tutta la mia vita. Cosa è la vita? La Vita è un ridestarsi continuo dal torpore. Ti desti, ricordi, capisci, esci dal sonno, e sei vivo. In altre parole, la Vita è un considerare il proprio passato come esistito. Ciò ti rende oggettivo, reale, esistente, vivo. Lasciare una traccia? E’ fondamentale lasciare una traccia? Chi lo sa… gli artisti, col loro terrore per la morte, ci provano da millenni. Ci sto provando anch’io.
Heimat può essere anche una camminata. Quando racchiude il risuonare delle origini ad ogni passo. Quando l’incedere ti ricorda la tua appartenenza. Quando la distingui anche da lontano, fra mille altre. Lei è la tua compagna, e la sua camminata è per te una Heimat.
Il suo camminare è leggero, allegro, con una nota d’impaccio alla fine di ogni passo, che sembra terminare con un lieve saltello. La sua è la camminata di una donna che è riuscita a rimanere ragazza.
Vi è contenuta la cautela di chi non mette i piedi in fallo, ma anche la fiducia di chi non si sottrae alla novità.
Il suo passo è lieve e al tempo stesso ben piantato a terra. Cielo e Terra, sopra e sotto, sembrano essere collegati come nel dettame alchemico. Macrocosmo e Microcosmo.
La mia donna ha queste qualità nella sua camminata, che anche alla sera, al buio, e da lontano, riconosco fra mille altre. Lei difatti è la mia Heimat.
Una lettura di questi anni è “Gli Incantesimi”, di Carlo Castellaneta. Può trovare posto qui, in quanto l’inquietudine del suo protagonista mi è molto affine. Forse anche lui era alla ricerca di una Heimat, e sperava di trovarla nella misteriosa donna che amava, che lasciava e ritrovava tra un viaggio, e l’altro, sempre disancorato dal presente tanto da perdere la propria identità, un uomo che non chiedeva spiegazioni, per non doverne dare.
Nella retorica letteraria, si nasconde spesso sotto una coltre di belle parole l’Anima di chi scrive. Credo che quella di Castellaneta fosse distante dal ruvido agire del suo protagonista. I continui rimandi alla sua infanzia, ci raccontano di un bambino iper sensibile. Dove era andato a finire? … nei mille rivoli dispersi dal tempo, in un adulto incapace di incantarsi? O che si incantava a comando? Come per ottemperare a un dovere, a un protocollo? Un libro affascinante, complesso, di difficile lettura.
Ma chissà come, legato a quegli Anni di apprendimento che furono per me quelli della montagna. Non fosse che per un linguaggio troppo secco, che tradisce l’eredità avuta da Hemingway di un “giornalismo letterario” troppo brut (i vini dolci, a volte, si godono di più), questo libro ha in sé delle dolcezze nascoste, anzi, riposte, riposte nei cassetti più segreti della Storia della Letteratura Italiana, quella “Storia” a volte periferica, fatta di grandi letture per lo più passate inosservate. Cosa lega questa lettura, a quegli anni? Ci sto pensando da giorni, e non riesco a capirlo. Castellaneta lo scoprii intorno al 1991, e l’alpinismo lo abbandonai nel 1986. Tra le due esperienze c’è di mezzo una piccola manciata di anni, che furono decisivi nella mia formazione letteraria.
Il libro si apre con una breve scalata sul Pizzo Stella, e coincidenza vuole che esso sia una Cima delle Alpi Lepontine, non distante dal Pizzo Tambò. La mia biografia si incrocia, quindi, su queste pagine con la biografia dello scrittore Castellaneta? A quei tempi scrivevo i miei primi racconti, ispirati al libro “Da un capo all’altro della città”, raccolta di racconti di Carlo Castellaneta, e a “La Notte della Tigre”, raccolta di racconti di Giorgio Scerbanenco. Era una fase della mia vita in cui stavo rinsaldando il mio rapporto con la metropoli, dopo averla disertata per molti anni, vivendo più a Venezia che a Milano.
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