Cuore Beat di una camminatrice solitaria
Aveva una gran voglia di vivere. Di gioire sempre in maniera molto composta e interiore. Un un buon risotto con l’ossobuco in una trattoria a 10 euro tutto compreso. Una buona conversazione, o dormire prima di mezzanotte e alzarsi all’una per scendere in un chiosco. E qui bere un bicchiere di vino ed essere sempre ispirata per i suoi racconti alla Tommaso Landolfi,
nei quali la vista di uno sconosciuto e il di lui conversare divenivano il materiale di un lungo e interminabile romanzo di formazione, un in progress di bevute e camminate nelle valli fiorite della Val D’Aosta, notti nel sacco a pelo e tè bevuto dalla borraccia. Una vita frugale, quella di Adalgisa, un nome arcaico, il suo, una parlata calma e misurata, che tradisce antiche passioni distruttive ormai sopite dagli psicofarmaci e dalle sedute dal dottore purtroppo scomparso che voleva leggere i suoi racconti scritti a mano, che la aiutava a stilare una blibliografia calibrata sulle sue esigenze di guarigione, verso un’autobiografia che non avrebbe mai concluso. Adalgisa era tutto questo, e forse, anzi, sicuramente molto altro: una donna che aveva avuto molti amori, che aveva smesso di piangere e di soffrire, i suoi segreti che forse nemmeno più lei voleva e poteva raggiungere.
«In quella trattoria ci sono dei primi grintosi, con tutti quegli spezzatini e quei pisellucci… e poi un magnifico fritto di mare…», usava questi aggettivi con grazia e una certa arguzia letteraria, trattava con tenerezza le cose tenere della vita e la sua bocca le esprimeva con altrettanta tenerezza per non guastarle o aggredirle.
Mi raccontava altrettanto volentieri delle sue avventure in treno sino alla Valle d’Aosta e delle sue notti in tenda, come delle camminate invero pericolose sul ponte di Via Carlo Farini alla ricerca di un chiosco aperto alle tre di notte.
Mi raccontava queste cose, coperta da un ampio cappello bianco di paglia intrecciata con la fascia di raso, alla maniera degli Anni’20, un abito pulito e ben stirato color pastello, e quel modo di accavallare le gambe, pur seduta sul muretto di cemento di un chiosco, come fosse stata nell’elegante foyer di un teatro.
Nel raccontarmi delle sue scritture usava delle descrizioni luminose e forbite, il che mi faceva intuire fossero ricche di aggettivi e di descrizioni a metà tra il fisico il fisiognomico, forse anche turbolente ma sicuramente vivaci, non lineari, come non lineari erano i suoi percorsi tra città e montagna, tra dormire e discorrere di notte con gli sconosciuti.
«Di notte i pensieri sono diversi, ispirativi… – diceva – bisogna prenderli subito, altrimenti scappano…»
Sempre dietro all’ispirazione come un segugio che segua una pista, attenta ai suoi segnali, pronta nell’afferrarla e fissarla sulla carta, con quel cuore adolescente e beat, alla Gregory Corso e alla Ferlinghetti, che è il cuore del viaggiatore notturno, del jazzista che improvvisa e coglie nell’aria note di amore e allegria, di malinconia crepuscolare e di gioia aurorale.
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