Alberto Schön la simpatica fobia sociale di uno psicoanalista che non ne può più dei mona
Se uno è scemo, ovvero, in Veneto mona, forse non ha molte colpe se non capisce. Si dice spesso che ai mona, agli scemi, bisogna perdonare, così come ai vecchi e ai bambini. Il minimo denominatore comune fra le tre categorie, sembrerebbe dunque essere una loro sottostante condizione di fragilità. Perché prendersela con una persona fragile, soprattutto se ci si trova nella posizione – etica – di un medico, di uno psicoterapeuta, di uno psicoanalista, un curatore, appunto, di anime fragili?
Una risposta potrebbe essere contenuta nel concetto clinico di burnout, quel bruciarsi fuori che colpisce spesso gli addetti al pubblico di molte mansioni statali, come gli impiegati postali, gli educatori, gli infermieri, ma anche medici e, perché no, psicoterapeuti, dopo una lunga – si parla di decenni – esposizione al dolore altrui, alle sue richieste, ai suoi bisogni, che l’operatore sente di non poter più soddisfare. Il burnout colpisce molto più volentieri quelle categorie di operatori – sanitari – che si confrontano con la cronicità – oncologica, neurologica o psichiatrica – che non lascia alcuna speranza di ripresa da parte del malato, e che fa percepire – nell’operatore – come vani tutti i suoi sforzi. E’ un po’ come nel Mito di Sisifo, perennemente costretto a un’azione ripetitiva e senza soluzione.
Dico, dunque siamo, è un libricino smilzo, dalla copertina bianca e molto casta, che non prelude minimamente alla carica detonante che le sue pagine contengono. La carica detonante di un ormai anziano psicoanalista padovano, che rinuncia a voler sembrare a tutti i costi un esempio di virtù politicamente corretta, e inveisce contro i tanti mona assortiti che, soprattutto in seguito alla pandemia da covid, sono usciti a invadere le strade coi loro monopattini, le biciclette in contromano e sul marciapiede, coi cani al guinzaglio e lo smartphone in mano, in nome di una iperconnessione virtuale che disconnette però il loro cervello.
Dico, la prima parte del titolo, allude alla pratica del pensare e dello scrivere, del comunicare all’Altro generando quel senso comunitario che si compie solo con l’arrivo a destinazione del messaggio nella mente dell’interlocutore, che, insieme all’emittente, genera uno sperato Noi. Non c’è Io, dice infatti Alberto Schön, se non c’è un Noi. L’Io si afferma dunque solo nella sua concretizzazione attraverso il Noi della comunicazione. Quando l’Io non raggiunge l’Altro da sé, quando l’Io è solo monologante e non oggettivante, quando non ci prendiamo cura degli altri, siamo soli, abbiamo anche perso la radice prima dell’Essere, il Nostro Io, senza gli altri, siamo Niente.
Quello che più spaventa Alberto Schön è questo nullismo, questa nientificazione cui l’attuale Società – purtuttavia iperconnessa e iper Social – si sta nichilisticamente e tragicamente votando, forse anche col concorso della pandemia, che ha slatentizzato le più profonde istanze antisociali e regressive insite nell’individuo.
In chi pratica l’arte del curare, è certamente insito un alto grado di idealità, se non di idealismo. In tal senso, mi va di ricordare la figura del povero Wilhelm Reich, il famoso e mitico psichiatra viennese morto in prigione negli Stati Uniti, che aveva pagato duramente sulla propria pelle il valore rivoluzionario delle proprie idee. Reich avrebbe non solo voluto curare i suoi pazienti, ma, a partire dalla pratica clinica, arrivare anche a una profonda riforma sociale di stampo socialista. Non è stato capito dallo stesso Freud, che ne decretò l’allontanamento dalla Società Psicoanalitica, e verrà in seguito osteggiato anche politicamente e costretto all’esilio.
Perché dico questo?
Perché un curatore d’anime, difficilmente si sottrae a spinte riformiste in ambito sociale. Senza scomodare gli abusi ideologici di una psichiatria Anni’70 che aveva voluto portare la politica sui lettini analitici (Basaglia, la maggioranza deviante, 1971) (Psicanalisi e Politica, Atti del Convegno di studi tenuto a Milano l’8-9 maggio 1973 – a cura di Armando Verdiglione) – ma si dovrebbero anche citare gli studi di Laing, di Barton&Goffman, di tutti i negatori di un’autonomia dell’Individuo dagli influssi sociali – potremmo pensare che la cura individuale sia espressione di una volontà di cura a più ampio raggio, che il medico, volendo la guarigione dell’individuo, aspiri anche alla guarigione dell’intera Società, soprattutto quando egli pensa che sia proprio la Società la causa di certe malattie, come quelle psichiatriche.
Detto questo, un terapeuta è inevitabilmente anche un artista, un idealista, e una persona minata – anche se in minimo grado – da una certa quota di onnipotenza.
Da qui il desiderio che la Società sia a immagine del buono e del giusto, ovvero, di quell’ideale armonioso di salute, equilibrio, che ci proviene fin dall’antica Grecia e codificato in Età Moderna da Freud come risultato di una spinta alla civilizzazione attraverso il gusto, l’estetica, l’amore e il lavoro. Secondo gli studi sociali, il burnout è il risultato anche di una delusione e di una disaffezione per l’oggetto del proprio assiduo impegno, è una condizione che deriva dal sentirsi in qualche maniera traditi nelle aspettative.
Bene, dunque, come può un esperto saggio e stimato psicoanalista come Alberto Schön sentirsi in burnout verso la Società intera, se non avendo per essa nutrito, sin dalla più giovane età, sin dai tempi in cui curava la Rivista dell’Università di Padova Il Bo, una speranza e un accorato impegno civile, un desiderio di vederla svilupparsi al meglio secondo il criterio di una Bellezza che i Classici e la psicologia ci insegnano essere – oltre che un mero canone estetico – soprattutto una categoria morale del vivere civile e democratico, ma sentendosi tradito invece su questo punto: vedendo dilagare l’ignoranza, la volgarità, l’imbecillità (monaggine, in Veneto)?
Sì, forse in questo sentirsi deluso e tradito risiede quella piccola quota di onnipotenza che gli perdoniamo in nome di un suo essere anche artista oltre che medico, gli perdoniamo quel suo bisogno di voler vedere la Società a sua immagine e somiglianza, additando e inveendo contro chi non si comporta secondo il suo canone, perché invece, leggendo gli aforismi e i racconti tratti dalla sua vita professionale, vediamo quanto ami e rispetti la natura profonda – e la conseguente alterità – dei suoi pazienti, tanto da farlo essere un medico che in nessun modo tradisce il patto ippocratico.
Vi è in questo bianco e casto libricino – solo apparentemente innocuo – una forte carica sovversiva, che gli discende forse in linea diretta dalla caustica penna di Karl Kraus o di qualche altro eminente mitteleuropeo, come Robert Musil, quest’ultimo, come Alberto Schön, amante dell’ordine, del decoro, dell’esattezza. Questo libro corre su un doppio binario, quello clinico e quello politico: è sul binario politico che – giustamente – Schön decide di essere politicamente non corretto, di dare del mona a chi se lo merita, anche se, in fondo – binario clinico – quest’ultimo potrebbe anche essere un suo amato paziente.
Alberto Schön
DICO,
dunque siamo
CLEUP – Padova, dicembre 2020
Di solito non riporto il prezzo dei libri, ma siccome questi sono spesi bene, dico che costa Euro 14,00