Sognando CALIFORNIA a un passo dal cielo il Climbing e il gioco nella Val di Mello che fu
Sono passati quarant’anni da quando andavo per montagne, e scalavo pareti per lo più di granito, avendo il desiderio di emulare i grandi climbers californiani, sulle nostrane Big Wall del Masino Bregaglia. A quei tempi ho fatto in tempo a vedere la Val di Mello nella sua bellezza ancora incontaminata, e a salire Vie che erano ancora per pochi, a non mettermi in coda all’attacco di una salita o a un punto di sosta. La mia prima salita su roccia, una classica che mi porterò sempre nel cuore, caratterizzata da quella facilità che hanno i tracciati per i principianti che debbano abituarsi all’esposizione senza grossi traumi o rischi, fu il Torrione Porro, sopra Chireggio, con la Guida Alpina Livio Lenatti. Avevo 15 anni, di pochi mesi sotto la soglia dei 16 compiuti, che mi avrebbe dato legalmente accesso all’Attendamento Mantovani, ma il CAI, vista la mia motivazione e insistenza, non poté che accogliere la mia richiesta e fare un’eccezione. Mi ritrovai in un ambiente selvaggio e imponente, dove si respirava un’aria rarefatta con la sensazione di essere al cospetto di qualcosa di assoluto e remoto. Scopro, da fonti del web, che l’ambiente in quota attorno al Rifugio Porro, oggi non è più così selvaggio né incontaminato: sono state create delle vie ferrate, sono stati gradinati i sentieri, sono stati affissi chiodi resinati lungo i – peraltro facili – tracciati di salita. Mi chiedo il perché di questa corsa folle verso l’addomesticamento della Montagna (la metto in maiuscolo, in quanto molti si dimenticano che una Via in Quota, ancorché facile, non è una Via in falesia, né in palestra coperta, sembra eccessivo sottolinearlo, ma gli incidenti che in questa epoca continuano a ripetersi, anche su tracciati banali fino anche sui sentieri, sono la dimostrazione della correttezza del vaticinio che fece Reinhold Messner negli Anni’80: che saremmo arrivati a una forma di alpinismo di massa, che gli incidenti si sarebbero moltiplicati, e che le Alpi sarebbero diventate un immenso parco giochi).
Forse bisognerebbe risolvere un equivoco sul Gioco in Montagna. Giocare con la Montagna, alla maniera in cui Ivan Guerini, nello storico Volume Il gioco arrampicata della Val di Mello (Zanichelli, 1979), ci insegnava e profetizzava, è tuttavia una cosa molto seria. Il gioco ha le sue regole. Vanno studiate e ben memorizzate. Ivan Guerini non profetizzava la banalizzazione della montagna, né la sua riduzione a circo di massa. Le Vie che egli ha aperto sono ancora oggi della massima difficoltà, oltre che di rara bellezza estetica. Ed è proprio sul piano estetico che il Gioco in Montagna assume la sua valenza più pregnante, un atto disinteressato ed estraneo a ogni forzatura. Ciò comprende la ricerca di una Via logica – estetica – di salita, l’uso ridotto delle autoprotezioni, l’assenza totale di interventi invasivi sulla roccia, come l’affissione di chiodi a espansione che richiedono l’uso forzato del trapano. Estetica e gioco diventano gli elementi di una salita intelligente, agile, bella. Anche, se non ancor di più, su grandi difficoltà. Il netto opposto delle Vie a spit, o delle Vie ferrate.
In tutti i campi le forzature sono inestetiche, controproducenti, spesso denotano poca intelligenza, inadeguatezza, incapacità in chi le compie.
Chi, ad esempio, stupra una donna, è incapace di sedurla. Trovare invece un varco, saper individuare una linea da seguire per giungere all’obiettivo senza le immancabili violenze che gli incapaci sono costretti ad adottare per esercitare il loro egoismo, non solo è un fatto estetico, ma racchiude una forte valenza etica.
Anche appropriarsi di una montagna con mezzi tecnici che superano le Nostre capacità, è un atto egoistico oltre che violento. Il Gioco Arrampicata profetizzato da Ivan Guerini non era niente di tutto ciò. In esso era racchiuso un insegnamento originario, che prendeva le mosse dall’ancestrale rapporto dell’Uomo con la Natura, smarrito nel corso della Civilizzazione, quello stesso processo di (in)Civilizzazione che avrebbe spittato, ferrato, gradinato, addomesticato… al fine di rendere per tutti la Montagna, una dimensione che – forse – non dovrebbe essere per tutti…
Un fraintendimento storico, però, forse ha valso a farla diventare tale, anche grazie a quegli imprenditori che, da ex climbers (e puristi dell’alpinismo, come Jeff Lowe e Yvon Chouinard), hanno saputo – grazie alla vendita di materiali sempre più sofisticati al grande pubblico – creare un business esteso e trasversale alla Società di Massa in seno all’outdoor, agli sport estremi e, in ultimo, all’alpinismo (mi chiedo: tradendo la loro stessa iniziale filosofia? … in effetti, molti ex hippy e fricchettoni si sono imborghesiti nel corso degli Anni, in questo lo scenario del climbing è molto simile, se non sovrapponibile, a quello della grande musica Rock degli Anni’70… e poi Rock non vuol dire Roccia?).
Un’immagine di quegli Anni ruggenti e dorati, prima della discesa in corda doppia nell’abisso degli Anni’80 e l’inevitabile insabbiamento di ogni ideale rivoluzionario nei ’90 che preludevano alla decadenza dei 2000 e alla totale morte civile, ci ridà il senso di cosa fu il Gioco in Montagna, praticato da ragazzacci post beat che ci ricordano i loro cugini letterari della Beat Generation, gli eredi di un ideale di Frontiera che fu incarnato prima di loro dallo scrittore John Steinbeck, e da quei vagabondi (del Dharma) che si aggiravano fra Pian della Tortilla e Vicolo Cannery,
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