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Biglietto scaduto, romanzo razzista di Romain Gary, pubblicato in Italia da Rizzoli nel 1976, è una storia d’amore, ma più che una storia d’amore, è una storia sull’amore. Ossessivo, disperato quanto il suo autore morto suicida nel 1980, nichilistico.
Nel leggerlo, si prova una certa nostalgia per quel genere letterario tanto in voga in quegli anni, celebrato dall’editore Rizzoli che seppe dare voce a grandi firme della letteratura segnata da quel tono crudo e amaro.
Non c’è niente di paragonabile ai nostri giorni, eppure viviamo in un mondo molto più disperato di quello degli anni’70, l’economia è allo stremo, la politica agonizzante, il terrorismo è il pane quotidiano in città assediate dalla paura, di lavoro non ce n’è più per nessuno, e se c’è, è di pessima qualità, senza alcuna garanzia, eppure, oggi la nostra letteratura sembra voler voltare le spalle ai problemi, alla tragicità dell’esistenza, all’amarezza del vivere, e indorarsi di buoni sentimenti, ancorché di storie sul disagio rese più rassicuranti ed evasive (non siamo di fronte a Ragazzi di Vita di Pasolini, indigeribile per chiunque) da un senso del disagio (sia esso psichico, sessuale, economico, sociale, ce n’è per tutti i gusti) che tutti accomuna, e non più divide o stigmatizza come ai tempi della Roma di Pasoliniana memoria.
Se un tempo il disagio letterario era qualcosa che il lettore borghese guardava dalla sponda opposta del fiume, e ne provava magari orrore, oggi il disagio è qualcosa che lo accomuna, lo identifica coi personaggi e con gli autori, è qualcosa in cui lo stesso lettore è immerso a tutto tondo, e ciò non gli permette di compiere quel salto simbolico tra sé e l’opera, che un tempo decretava la letterarietà (e l’alterità) di un’opera d’arte, la sua irraggiungibilità e magnificenza. Stiamo dunque tutti male, e ci troviamo immersi nelle stesse storie che leggiamo, che quindi non ci sorprendono e non ci tolgono più il fiato, non ci affascinano e non ci rapiscono, non ci spaventano e non ci fanno innamorare, tanto che gli scrittori sono diventati dei semplici cantori o traduttori del senso comune. La letteratura è morta.
Romain Gary è uno scrittore crudo, un ex combattente della Resistenza, un decadente, un razzista. Anche se su fronti politici esattamente opposti, il suo disagio esistenziale (e la fine per suicidio) la sua scrittura raffinata e sofferta, intrisa di fratture e di marcescenza, di un senso imputridito dell’anima, lo accomunano al collaborazionista e tanto detestato Pierre Drieu La Rochelle. Ci trovo lo stesso squallore verdastro, la medesima aura tombale, il medesimo letto che trasforma la fornicazione in un confessionale. Lo stesso disprezzo per la vita. Strano, Gary non era un fascista. Ma forse lo era senza saperlo.
Macho certamente, maschilista sicuramente. Anche Hemingway lo era, ed era anche lui un combattente sullo stesso fronte. A quei tempi, essere di Sinistra, non significava rinunciare alla vocazione macha e predatoria del maschio, non significava dover andare a braccetto col me too e col gender. A quei tempi la politica era ancora, e fortunatamente, scissa dal talamo.
Biglietto scaduto ci parla all’orecchio, è una lunga confessione. Quanto bene sanno confessarsi i francesi. Parlare dei cazzi loro con quel timbro universale.
E allora, ci troviamo a bere un whisky con un nostro vecchio amico, un uomo in piena crisi d’età, un imprenditore in piena crisi con la sua azienda. Che ci parla del suo cazzo, di come quella giovane e ricchissima brasiliana glielo fa tirare, ma di come lui faccia fatica a mantenere alto con lei, senza generare sospetti, il proprio onore di maschio, di come sia difficile, per lui, farlo ancora con eleganza, senza mostrare fatica, con quell’eleganza che non genera, nella donna, patetiche attenzioni per la sua salute e tenuta. Il nostro amico, a sessant’anni, si costringe a volerne dimostrare trenta, non si rassegna al pericolo, o alla naturale necessità, di dover dire: “scusami, non ce la faccio”.
Il racconto potrebbe benissimo figurare tra i ben riusciti trattati di sessuologia del ‘900, ma anche tra le testimonianze di uno psichiatra dedito allo studio di deliri ossessivi.
Gli affari vanno male, e il membro non sottostà più ai suoi comandi in compagnia di una donna. Una duplice crisi si abbatte su Jacques Rainier: il declino della potenza economica europea, fa segnare il passo alla sua azienda, che Rainier si trova costretto a vendere a concorrenti più forti, e a questo fallimento, seguono quelli sessuali dovuti all’età. Il declino della sua potenza sessuale, e quello della sua azienda, improvvisamente – durante un viaggio a Venezia – innescano nella testa di Jacques Rainier – uomo mai abituato a perdere – un delirio degno di un trattato di psichiatria, una parabola sessista e razzista. Rainier non vuole essere uno dei rami secchi che il governo dice di voler tagliare via per favorire la ripresa economica. La paranoia avanza di pari passo ai suoi problemi ghiandolari, un delirio in cui tutto ciò che è giovane lo esaspera: i giovani che possono fare l’amore quanto vogliono, e i paesi giovani che detengono le fonti di energia, la gente di colore che il capitalismo sfrutta, che lui sfrutta mentalmente per procurarsi eccitazioni sessuali, ma che, fra breve, sarà la padrona del mondo perché è la padrona delle materie prime.
Una sorta di romanzo razzista e anti immigrazionista ante litteram, scritto da un insospettabile uomo di Sinistra, un insospettabile uomo della Resistenza francese.
«Cosa vuoi, l’Europa ha perso la sua storia. Non ha più vitalità propria. Le nostre materie prime, per l’ottanta per cento, stanno dagli altri. Si parla della nostra “materia grigia” e quanto a quella, certo, abbiamo la nostra parte. In quel campo ci andiamo forte. Ma tutte le nostre fonti di energia, di vitalità – i nostri coglioni, insomma – sono nel terzo mondo, dai nostri ex colonizzati… Così, adesso è venuto il momento della verità.»
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