L’unione delle forze e degli ideali
La coralità dei gesti e dei sentimenti, l’unione delle forze e degli ideali, erano il retaggio della città produttiva e operaia degli anni’70. Allora la città faceva corpo contro i problemi, la gente si aiutava a vicenda. Oggi il problema è proprio la città, ciò da cui difendersi, sono proprio le persone. Gli ideali sono morti, come la solidarietà o la fede o i partiti.
Abbiamo perso questo. E’ avvenuta una caduta, l’uomo è caduto in un abisso di incomunicabilità e angoscia, quasi la tecnologia non fosse che quel frutto proibito che, mangiato, ha portato al disastro della cacciata dall’Eden, quando tutto era a portata di mano, dove anche le fatiche erano portate addosso con gioia e speranza. Si è perso il fine del faticare, si fatica e basta, e ci si deve guardare dagli altri. Ognuno è portatore di minaccia, e non di opportunità. La città è minacciosa, fonte di paura. La disgregazione sociale e affettiva sono un dato di fatto sotto gli occhi di tutti. I Social sono sempre più affollati, le strade sempre più silenziose, attraversate dall’unico rumore delle macchine. Le persone che vi transitano sembrano teleguidate dallo smartphone. I loro ideali sono gli oggetti, il consumo, il possesso. Cercano nella Rete costantemente qualcosa che le faccia sentire meno sole. Difatti, nelle moderne città tecnologiche, si passa più tempo da soli che in compagnia, si è soli anche quando si è con qualcuno.
La solitudine è diventata prima di tutto intrapersonale, è interna alla persona. Di pari passo si è impoverita la vita famigliare, lavorativa, sociale. Dormiamo e ceniamo con partner coi quali non comunichiamo, magari ognuno attaccato alla propria tavoletta luminosa. Tutto questo progresso tecnologico non ha coinciso con quello psicoaffettivo. Siamo diventati degli analfabeti delle emozioni e dei sentimenti. Sappiamo tutto del funzionamento del nostro smartphone e non sappiamo nulla di noi stessi e degli altri, anche delle persone più prossime. Le parole non veicolano più nulla, hanno perso la loro funzione comunicativa, affettiva, l’alienazione le ha rese contingenti, mezzo per convenevoli e scambio di formalità, luoghi comuni. Si parla in maniera sterilizzata, senza coinvolgimento. Le parole sono diventate merce, o moneta di scambio (Giacomo Dacquino). Proviamo facilmente emozioni davanti a un film, siamo dipendenti da emozioni indotte dagli spettacoli televisivi, in quanto non siamo più in grado di generarle in noi stessi. Abbiamo bisogno di surrogati emozionali, perché spesso la vita non ci comunica più niente. Siamo talmente appiattiti, che abbiamo costantemente bisogno di stimoli: allora ascoltiamo in continuazione musica ritmata e frastornante, guardiamo immagini di ogni tipo, ma non ci soffermiamo su niente. Fermarci equivale a sentirci morire. La nostra è una società dell’eccitazione, non della riflessione. E tutto questo incessante correre, muoverci e allontanarci da noi stessi, coincide paradossalmente con un costante orgasmo del nostro Io sovrastimato, che ci fa vivere nel culto di noi stessi, avendo gli altri poca importanza, o alcuna. Corriamo, consumiamo, tutto e subito, in un continuo affanno, in una totale mancanza di ideali, ma anche di idee e di veri scopi. Le città sono rumorose, in esse tutto è rapido e consumabile all’istante, in esse tutto passa e lascia un ricordo superficiale, una lieve traccia nella memoria che presto svanisce al presentarsi dello stimolo successivo. Orari, impegni, status symbol, contatti che non riescono a divenire relazioni, tutto si prende e si lascia con disinvoltura secondo uno stile importato dagli Stati Uniti, secondo una americanizzazione dei nostri valori fondanti che ci ha trasformati in particelle isolate che si aggirano in luoghi svuotati di identità, come in grandi supermercati. Le città, o La Città, nel corso della storia si sono sviluppate secondo un mix patologico di violenza, orgoglio, egoismo e ricerca di profitto (Giovanni Maria Flick). La cacciata dall’Eden ha significato una continua ricerca di sicurezza. Sul binomio sicurezza paura, la prima città di Enoch ha gettato la sua maledizione sulle successive. Alla violenza di Enoch, si aggiunge la superbia di Babele, che cerca di organizzarsi in maniera umana e perfetta, provocando però caos organizzativo e confusione (Giovanni Maria Flick). Sembra essere il ritratto delle città moderne, afflitte da autoreferenzialità, da burocrazia e disordine politico, nelle quali le differenze, lungi dall’integrarsi, rimangono voci singole e isolate in lotta perenne. L’Amerika di Kafka. L’unità degli uomini e dei popoli non può risolversi nell’abolizione delle differenze (Giovanni Maria Flick), ma ancora una volta nel Linguaggio, in una sua semplificazione come fattore di eguaglianza, una uguaglianza formata negli ideali dello spirito. Alla superbia e alla autoreferenzialità di Babele, Dio risponde con la dispersione, che per l’uomo si concretizza in una occasione di moltiplicare le lingue e i saperi. Passando attraverso Babilonia, si giungerà a Gerusalemme, la Città della pace e del dialogo. Dell’universalità, dell’assenza del male, in una dimensione di concordia prima ancora che di giustizia. Sembra qui superato il rifiuto dello straniero che vide in Sodoma una delle sue maggiori perversioni, le cui mura, per punizione, da forme di protezione vennero trasformate in motivo di dannazione. Gerusalemme è la “città sposa, dimora di Dio con gli uomini”, in essa “non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Apocalisse 21,4). E’ quell’utopia di una città ideale, che con nostalgia guardiamo come posseduta e poi perduta, una perdita, una ferita che alberga in tutti noi, un’aspirazione che tutti ci accomuna, perché è una spinta ideale intrinseca all’uomo.
Viviamo nella metafora di città vecchie, accidiose, rancorose e inospitali. Città dove i sorrisi sono solo sui cartelloni pubblicitari, in messaggi del tutto disancorati dalla rabbia comune, dal comune e disperato sentire. Guardiamo dunque con nostalgia alla giovinezza della nostra città, che coincide con la nostra stessa giovinezza, epoca di speranze e fiori ancora non sbocciati. Ci ammaliamo di nostalgia, in queste nostre città erette nel sospetto dell’altro, nel rancore e nell’indifferenza. Ci rifugiamo, a seconda del credo politico, nei centri sociali o nelle discoteche, per trovare un ponte tra noi e il mondo, per il desiderio di un incontro felice, ma quei fiori non sbocciati, ormai lo sono e si sono anche da tempo seccati. La rabbia che circola nelle metropoli è spesso fomentata dall’ignoranza, dall’incultura, dalla presunzione. Gli ideali più diffusi sono rappresentati dalla competizione e dall’arrivismo. Pestare a sangue una persona perché passa prima di te al cesso di una discoteca, come nel caso qui riportato, descrive uno scenario in completo disfacimento:
Roma, lite per la fila al bagno in discoteca: 30enne massacrata di botte da due donne, è in coma. Le due donne che hanno compiuto l’aggressione sono state arrestate e portate in carcere con l’accusa di tentato omicidio. Ai poliziotti, completamente ubriache, hanno detto che la vittima voleva superarle nella fila per il bagno. La 30enne è stata presa a calci e pugni e colpita con i tacchi a spillo (https://www.fanpage.it/roma/roma-lite-per-la-fila-al-bagno-in-discoteca-30enne-massacrata-di-botte-da-due-donne-e-in-coma/) (5 ottobre 2021).
Nella vana ricerca di luoghi di appartenenza e relazioni autentiche, troviamo solo dei Non Luoghi in cui intessere delle non relazioni. Ci rimpinziamo di rapporti frugali e di contatti sino ad esaurire la memoria della SIM, ma nel nostro cuore alberga il vuoto, se non quella nostalgia o saudade che faceva ammalare i soldati svizzeri.
I suoi primi studiosi – Zwinger e Tissot – la consideravano malattia propria del servizio militare (Antonio Prete). Sorse il sospetto, che presto fu rimosso, del servizio militare come malattia, e quando il sospetto, con Tissot, giunse quasi a pubblico dominio, fu delimitato solo al servizio militare mercenario (Antonio Prete). Cioè, al servizio militare privo di un’ideale compensazione al sacrificio, spossessato da una causa davvero condivisa (Antonio Prete). E’ qui evidente che la mancanza di condivisione, genera a tutti i livelli malinconia se non patologia. Che le patologie delle città contemporanee, sono massimamente riconducibili alla loro natura di Non Luogo.
Ma vi è, in questo sentimento umano, anche la traccia di un altro sentimento, ancora una volta, il sentimento della minaccia, del male, in quanto la nostalgia, secondo Freud, appartiene al Perturbante: il ritorno di immagini familiari, ma sull’onda di voci estranee e in luoghi e tempi estranei – il ritorno del proprio e del noto nello straniero e nell’ignoto (Antonio Prete).
Sarebbe dunque nella Babele delle molte lingue e molte culture, che prosegue la maledizione di Sodoma, la città che rifiuta l’accoglienza e l’ospitalità, sfruttando lo straniero (presagio di un’attitudine ricorrente anche ai nostri giorni) (Giovanni Maria Flick)?
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