AMMALARSI DI SOLITUDINE
L’essere umano fa i conti con la propria finitudine e la propria solitudine. Vissuta come una vergogna, a partire dagli anni postbellici che hanno innescato nella società una frenesia di stampo americano, e quindi uno stile di vita consumistico, distratto, edonista, la solitudine è tuttavia sempre stata raffigurata dalle arti e dalla letteratura.
Dante Alighieri ne ha scritto nel XVI canto dell’Inferno e Francesco Petrarca nel XXXV Sonetto. Di solitudine se ne è occupato anche il poeta Salvatore Quasimodo: “ognuno sta solo sul cuor della terra / trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera”.
Nella musica la solitudine è un sentimento presente anche nei testi di Jacques Brel, Di Francesco Guccini, di Fabrizio de Andrè, di Roberto Vecchioni. Léo Ferré.
Lo stesso Giuseppe Verdi affronta la solitudine nel suo Nabucco.
Sentimento universale, trasversale, è molto diffuso, ma oggi è una vergogna. Eppure, nelle grandi città tecnologiche, sull’esempio di una cultura purtroppo importata dagli Stati Uniti, di solitudine ne soffre la maggior parte degli individui.
La psichiatria tradizionale ha sempre ignorato le disfunzioni affettive che causano la solitudine, e ancora oggi molti psichiatri curano la mente razionale e non i sentimenti. Anche la psicoanalisi ha riservato poco spazio alla solitudine, tant’è che ancora poco si conosce circa la sua genesi e le sue psicodinamiche (Giacomo Dacquino – Legami d’amore).
La vita dell’essere umano è segnata da lutti e separazioni, il primo dei quali è la separazione dall’utero materno. Nascendo, l’uomo perde la protezione data dai rassicuranti battiti del cuore della madre, colonna sonora che ha accompagnato tutta la sua vita intrauterina.
Dal momento in cui si stacca dalla madre, il neonato inizia subito a confrontarsi con un mondo fatto di stimoli sensoriali che deve imparare a comprendere e assimilare, strutturando successivamente il proprio sé distinto da quello materno.
E’ a questo punto, in questa fase evolutiva di individuazione del sé come soggetto, che per il bambino comincia verosimilmente la paura della solitudine, la quale andrà a costituire un importante tassello nella psiche di ognuno.
Le successive separazioni saranno segnate dal periodo dello svezzamento, dell’ingresso al nido, all’asilo, alle scuole elementari.
Si può dire che la solitudine e la separazione siano delle condizioni psichiche che strutturano l’individualità e accompagnano il bambino, poi l’adolescente, verso l’acquisizione della condizione adulta.
In questo processo, l’atteggiamento materno influenza il processo di individuazione del figlio, rafforzando, o nei casi patologici indebolendo, la sua autostima, la quale si rafforza solo con la sicurezza che la madre trasmette al figlio (Giacomo Dacquino – Legami d’amore). Per esempio, una madre trasmette sicurezza o insicurezza a seconda di come nutre o maneggia il figlio. Il braccio morbido o rigido, contratto, con cui lo tiene al seno o in grembo, può essere segno di serenità o di ansia, e conseguente fattore di sicurezza o insicurezza (Giacomo Dacquino – Legami d’amore).
Attraverso questi segnali corporei, la madre promuove o meno l’autostima del bambino, il quale si sentirà o meno degno di affetto, sarà o meno in grado di avere fiducia in se stesso. I problemi in età adulta riguardanti l’autostima, vanno il più delle volte fatti risalire ai primi mesi di vita e all’ accudimento materno. A questi primi rapporti infantili con la madre, sarebbero poi collegati i problemi o meno nella sfera dell’Eros in età adulta (Giacomo Dacquino – Legami d’amore).
Nella fase in cui va strutturandosi il sé del bambino, quest’ultimo vive un rapporto fusionale con la madre. E’ quest’ultima in grado di promuovere uno sviluppo autonomo del sé infantile? Se non lo è, in ragione di propri squilibri interni, questi ultimi passeranno immancabilmente nella psiche infantile, e promuoveranno comportamenti e vissuti disfunzionali in età adulta, fra cui il più importante vissuto della solitudine interpersonale, che nei tempi attuali rappresenta una delle maggiori piaghe sociali.
Purtroppo, non sempre in età evolutiva la crescita psicologica del bambino si svolge in un ambiente familiare favorevole. Il più delle volte, anzi, il bambino subisce influssi negativi che determineranno i suoi disturbi futuri. Nell’anamnesi di molti adulti “disturbati” c’è spesso alle spalle una famiglia “disturbata” in età evolutiva (Giacomo Dacquino – Legami d’amore).
Il bambino elabora l’immagine di sé anche attraverso il ruolo che deve assumere per soddisfare le aspirazioni inconsce dei genitori. Un atteggiamento materno positivo favorisce il riconoscimento in se stesso di bisogni impulsi stati emotivi che, se non adeguatamente riconosciuti e rispettati, diverranno il motore propulsivo di patologie nevrotiche e psicotiche, dovute al mancato riconoscimento del sé infantile.
In molte condizioni adulte di solitudine, situazioni che spesso non giungono all’osservazione dei curanti, si celano nuclei psicotici o nevrotici. Qualora queste persone andassero in cura, spesso il terapeuta, scavando nel loro passato, scoprirebbero che da bambine non sono state ascoltate, amate, comprese nelle loro esigenze individuali, ma più spesso schiacciate dalle aspirazioni e proiezioni narcisistiche genitoriali. Questi soggetti, molte volte, spinti dall’ansia, si sono staccati dalle relazioni familiari schiaccianti e malate, e hanno sviluppato un sé compensatorio fatto di bugie, dinieghi, fuga nel fantastico.
Viene strutturandosi così una forte inadeguatezza rispetto al mondo esterno, agli altri, alle relazioni in genere. Problematiche che si riverseranno nell’ambito lavorativo, relazionale, sessuale.
Quello che chiamiamo “solitudine” è un sentimento che i letterati hanno tanto e a lungo analizzato, ma che solo l’occhio attento della scienza può sviscerare nella sua dinamica interna al fine di curarlo. I segnali pregressi di questo disturbo sono da far risalire all’infanzia più tenera, e spesso incidenti di tipo comunicativo in questa età possono determinare strutture psichiche rigide e derealizzate in età adulta. A quel punto la psicoterapia dovrà andare a ritroso a recuperare i pezzi perduti nel processo evolutivo e a ricomporli. Solo con una buona anamnesi saremo quindi in grado di far fronte a un sentimento così diffuso e debilitante come la solitudine.
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