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Solitudine nelle grandi metropoli

Solitudine nelle grandi metropoli
La civiltà massificata, concentrata nelle grandi metropoli, ha perso l’unità sociale, solidale, meccanica, delle civiltà contadine pre tecnologiche e pre industrializzate. Nel passato, l’individuo era inquadrato e impegnato in una vita comunitaria; il villaggio e le piccole città in cui viveva erano ambiti in cui tutti si conoscevano e si aiutavano a vicenda. Oggi, l’uomo – o meglio, l’individuo massa delle grandi metropoli – è sperduto in immense città impersonali e inospitali, è ignorato da tutti, preso spesso all’interno di un ingranaggio di strutture impersonali vaste e anonime, che lo fanno sentire isolato. Se non inutile e senza orizzonte. Gli individui massa che vivono in grandi metropoli, pur disponendo di molti contatti, di molti rapporti, sono sempre più soli e isolati, tristi, addirittura disperati, e in nessun luogo la solitudine è più intensa che nella moltitudine (Giacomo DacquinoLegami d’amore).
A peggiorare la situazione, è arrivata l’automazione, che ha ridotto ulteriormente la socializzazione. Religione e politica non creano più coesione, e con l’allungarsi della vita, si allunga anche la solitudine. Una maggiore istruzione ha significato una perdita della fede, una secolarizzazione dei valori trascendenti. La fede in un aldilà non ha più alcun valore dopo gli anni ‘70 e ’80, le ideologie sociali si sono rivelate più seducenti di qualsiasi visione spirituale, facendo aumentare l’ansia, la depressione, le fobie e le tossicodipendenze (Giacomo Dacquino – Legami d’amore). Con l’avvento di Internet, inoltre, abbiamo visto affacciarsi all’orizzonte anche la dipendenza da cyber (cyber sex, gioco d’azzardo e sottospecie di abitudini criminali).
Oggi nelle grandi metropoli si va spesso dallo psicoanalista, perché nelle nostre città globalizzate mancano i bar o meglio le osterie, che una volta corrispondevano a veri e propri punti di incontro, le sezioni di partito, mancano le piazze, mancano i mercati, i negozi di prossimità, e questo fa venire a mancare i discorsi di strada, di vicinanza, lo scambio di idee anche tra conoscenti o sconosciuti, in uno svuotarsi di ogni punto di riferimento e di ogni sentimento di sicurezza, uno scenario in cui l’Io si disperde, in cui il nostro Ego non è più confermato da nessuno: la solitudine che ne consegue è quella di un Io che non si specchia più nell’altro (Giacomo Dacquino – Legami d’amore).
Nelle grandi metropoli globalizzate la solitudine assume i tratti della mancanza degli altri, della mancanza di limiti, della perdita di sicurezze, di valori che un tempo il mondo esterno offriva. L’evoluzione psicologica dell’individuo è una continua sublimazione istintuale verso il prossimo. L’essere umano non può vivere solo di se stesso, esistere ha un significato solo se si è presenti nel cuore degli altri, in quanto noi ci riconosciamo e ci specchiamo negli altri (Giacomo Dacquino – Legami d’amore).
Si ha perciò bisogno del rapporto con gli altri anche per confrontarci ed evitare di credere di avere sempre ragione. Ma oggi, da che sono nati i Social, abbiamo aggiunto un altro tassello alla nostra solitudine, un tassello tecnologico, quello degli algoritmi: grazie ad essi noi siamo convinti di avere sempre ragione.
La relazionalità è un valore dinamico, senza un traguardo sicuro, sempre da conquistare, perché sempre in pericolo, in quanto siamo percorsi da due opposte tensioni (Giacomo Dacquino – Legami d’amore): da una parte, proviamo il bisogno degli altri, il desiderio di dipendere da loro, di stare in compagnia, ma d’altro canto proviamo anche la necessità di essere autonomi, indipendenti, soli. Anche l’amicizia, come l’amore, è un’emozione che per maturare necessita di impegno, fatica, sacrifici.
Nell’adulto, la solitudine nasce quando i rapporti sono deficitari, non soltanto nella quantità, ma soprattutto nella qualità (Giacomo Dacquino – Legami d’amore). Ma sovente assistiamo a scene di vita quotidiana in cui gli individui si abbuffano di contatti e rapporti superficiali, uno via l’altro, intercambiabili, sino ad avere una vita relazionale, sentimentale e sessuale prossime all’accumulo seriale, sullo sfondo di una anaffettività e di un gelo emotivo che spesso rasenta non solo il cinismo, ma addirittura l’inumanità. Tuttavia sono proprio i luoghi in cui viviamo a facilitare lo strutturarsi di questi comportamenti: centri commerciali, ipermercati, grandi sale d’aspetto e mezzi pubblici affollati, discoteche assordanti dove non di rado alligna la violenza, città percorse dal sospetto e costruite sull’odio. L’individuo massa contemporaneo, dunque, non ha tutte le colpe se diventa cinico e se il suo cuore diventa gelido. Come aiutarlo? Come aiutarsi?
Nei casi gravi ed estremi di solitudine sociale, in cui il soggetto ha dovuto allontanarsi dagli altri per difesa – o meglio, autodifesa – nel tentativo, riuscito, di evitare le relazioni che a un livello profondo – vista un’infanzia difficile e un rapporto materno conflittuale – gli creano angoscia, la fuga dal mondo corrisponde anche a un desiderio di relazione che tuttavia avverte a livello conscio, come in certe malattie mentali – dissociative – in cui la chiusura verso il mondo esterno rappresenta una protezione rispetto a una immaginaria minaccia, mentre nei casi in cui non ha funzionato l’originario processo d’individuazione, una eccessiva apertura agli altri può trasformarsi in fusione con loro e conseguente perdita di identità (Giacomo Dacquino – Legami d’amore) quello che avviene nei grandi movimenti a sfondo politico o ideologico, solo per fare un esempio, ma anche nelle sette religiose pseudo spirituali, che tanto seguito hanno avuto a partire dagli anni della New Age.
Ad esempio, lo schizofrenico si ritira a volte nella solitudine per la perdita dei confini psichici e somatici, e per la conseguente angoscia di confondersi con gli altri. Il suo è un tentativo di autocura e di auto individuazione, parte finale di un processo fallito durante l’infanzia.
Quando l’individuo subisce la solitudine e non la cerca, prova una sofferta incapacità di comunicare, distaccarsi da sé per varcare i limiti del sé e incontrare l’altro, con un forsennato bisogno degli altri unito all’ incapacità di relazionarsi con gli altri, quale esito di due movimenti contrapposti che portano all’immobilità, a un totale senso di esclusione e a un doloroso sentimento di rifiuto e di rinuncia. Cui certo le nostre città non sopperiscono. Alla perdita del nostro Io, che è uno stadio ancora curabile, se non curato subentra la perdita dell’altro, la perdita della realtà, la perdita del mondo (dereismo, alienazione). 
Sul marciapiede la calca si muove in tutte le direzioni, lenta o svelta, si fa largo, rognosa come certi cani randagi, cieca come certi mendicanti, una folla (…) che riconosco anche nelle immagini della prosperità di adesso da come tutti camminano insieme senza impazienza, da come sono soli anche nella ressa, apparentemente senza felicità, senza tristezza, senza curiosità, come se camminassero per non andare da nessuna parte, senza intenzione, scegliendo ora l’una ora l’altra direzione solo perché si trovano lì, soli e nella folla, mai soli da soli, sempre soli nella folla. (Marguerite Duras – L’Amante, Feltrinelli, 1985).
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