Storie del distretto tessile di Biella
Una terra che ha saputo portare sino ai giorni nostri la tradizione dell’antica tessitura, il biellese, una terra di acque e montagne che con il loro clima e la lenta pazienza della gente di montagna sa ancora donarci preziose fibre da indossare. A Pray Giuseppe Ubertini (1859-1916), fu una figura emblematica della storia del Biellese. La sua biografia non è conosciuta al grande pubblico, ma è pur degna di un romanzo o di un film; egli fu seguace della dottrina mazziniana, si distinse per la sua passione anticlericale e socialista, colonna portante de “Il Corriere Biellese”, industriale tessile fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, partì volontario a 56 anni! Fu un’esperienza tragica, che lo portò alla morte per tifo nell’ospedale di Fonzaso il 3 ottobre del 1916, esperienza trascritta nel suo Diario di Guerra.
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Nel 1991 l’edificio è stato acquistato dall’artista Michelangelo Pistoletto, che l’ha trasformato in “cittadellarte”. Il territorio del distretto tessile biellese è situato a metà strada tra Torino e Milano, ed è uno dei pochi centri europei rimasti dell’industria tessile. Biella, cerniera tra l’alta pianura (qui detta “baraggia”) e le vallate alpine, ha una vicenda che va studiata a tutto campo per comprendere meglio anche l’Italia. La produzione laniera in Italia, agli albori del XIX secolo, era dispersa nei telai a domicilio e nelle piccole manifatture. Fu Pietro Sella, seguito da altri nomi che divennero icone del made in Italy, ad introdurre per primo le macchine industriali. Qui nacque la moderna industria tessile, nonché il capitalismo di comunità, con la trasformazione di un tessuto sociale che che viveva del binomio terra-telaio a regime di salario, processo cui seguirono aspre lotte sociali, e l’organizzazione operaia e mutualistica. Non mancarono però le grandi storie di filantropia, le opere sociali, l’Oasi Zegna voluta da Ermenegildo. A pochi passi da qui, altre fabbriche nel territorio e nelle comunità, che non furono solo fonte di profitto, ma generatrici di tessuto umano, come nel caso, più tardi, della Olivetti, che prese le mosse da una medesima cultura comunitaria, quella del “buon padre”.
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