Eurovision Song Contest 2022
EUROCONTEST(O)
Difficile raccontare l’Eurovision Song Contest appena terminato senza cadere in pensieri ammantati di retorica.
Cominciamo allora da una prospettiva tutta personale: ne avevo letto anni fa su Il Corriere della Sera e mi ero convinta a seguirlo, per la verità, un po’scettica, temendo fosse una accozzaglia di musicaccia senza senso.
Mai parole furono più improprie, e blasfeme.
Dal 2014, anno in cui la vittoria fu appannaggio della barbuta Conchita Wurst, capii che si trattava di una manifestazione paneuropea dall’importanza capitale.
Dalle regole imposte alle canzoni per essere performate nacque la mia personale meraviglia: brani non più lunghi di tre minuti, cantati in qualunque lingua, anche inventata (il Belgio del 2008 propose O Julissi na Jalini, se non ricordo male poco apprezzata dal pubblico perché non voleva dire assolutamente nulla), performance coreografiche di qualunque tipo, purché in linea col comune senso del decoro, e non con più di sei persone in contemporanea sul palco. Una logica tutta da interpretare.
Largo alla fantasia: un vero mantra, per alcuni gruppi pazzi, che più pazzi non si può, impossibile citare tutte le stranezze di sessant’anni di Eurovision. Uno su tutti, ma potrei tirarne fuori decine, o forse centinaia, il mostruoso gruppo finlandese Lordi, dell’edizione 2006… E alla rigenerazione di vetuste tradizioni del paese d’origine (esempio il bretone della canzone francese di quest’anno, Fulenn) ma anche pezzi da novanta, che non ti aspetteresti se non leggessi com’è andata la manifestazione dagli esordi del ’56: Domenico Modugno, e poi, negli anni, Abba, Celine Dion, Julio Iglesias, persino la nostra Gigliola Cinquetti.
Lontanissimi dalle coreografie dei Verka Serduchka, loro predecessori nel 2007, e dalla folle Dancing Lasha Tumba di cui sopra, i vincitori dell’edizione appena trascorsa ci hanno avvolto con sonorità orientali, a tratti folk e rurali, non senza una spruzzata di rap.
Presente grazie a un permesso temporaneo che ne ha concesso l’allontanamento dall’Ucraina e il cui irrinunciabile messaggio politico finale è passato come umanitario (altrimenti avrebbe rischiato la squalifica) la Kalush Orchestra ha cantato come una fenice in trincea, diffondendo il video ufficiale di “Stefanìa” solo dopo la vittoria: in esso sono ritratte delle madri, in tenuta militare, che tengono in braccio dei bambini, al centro di un cumulo di rovine. “Camminerò sempre da te per strade dissestate. Mamma Stefanìa, mamma Stefanìa, il campo fiorisce, ma lei sta diventando grigia.” Un refrain disperato, il suono di un flauto nel vento, nel colore tragico di una donna che invecchia e di una città ridotta ormai a una grigia e informe maceria. («Please help Ukraine, Mariupol. Help Azovstal right now»).
Personalissima classifica, a parte i vincitori ufficiali a cui non toglierei mai il primo gradino del podio: per la voce e il delicato mare bianco che la circondava mentre cantava, l’armena Rosa Linn con Snap; per eleganza e sobrietà, oltre a un timbro che ascolteresti per ore, l’olandese S10 con De Diepte, a cui segue il polacco Ochman con River. Ad honorem il quarto de Il Volo, per essere stato, nello stesso tempo, profondo come il Pacifico e alto come un angolo acuto.
Nota del recensore: qualcuno potrebbe confermarmi se la fortuna della Spagna, arrivata terza con un brano inutile e soporifero, intitolato SloMo, sia effettivamente imputabile ad un tentato attacco hacker andato a segno? Eurovision Song Contest 2022
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