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Katherine Mansfield

Katherine Mansfield e Janet Frame due anime della Nuova Zelanda

Katherine Mansfield e Janet Frame due anime della Nuova Zelanda
Due letture fatte l’una a ridosso dell’altra, la biografia di Katherine Mansfield scritta da Pietro Citati, e L’isola del presente, di Janet Frame, continuano a contendersi lo spazio della mia mente, a evocare la profondità dei sentimenti umani e del dolore. Due libri splendidi, con cui ognuno di noi si può confrontare con l’infinito, contando su due grandi penne, capaci di far commuovere e riflettere. La Nuova Zelanda fa da cornice alle esistenze di queste due scrittrici, entrambe contraddistinte da un male di vivere profondo, che ne avrebbe segnato le esistenze. Per sempre inseguita dai ricordi dell’infanzia neo zelandese, la Mansfield avrebbe vissuto la vita adulta in Europa, e passato i suoi momenti di terrore e solitudine, caratterizzati dalla tubercolosi e dalla povertà, in Costa Azzurra, la stessa frequentata da Fitzgerald quando vi scrisse Tenera è la notte, erano gli anni ruggenti del Jazz e della spensieratezza tra le due guerre.
Katherine Mansfield e Janet Frame due anime della Nuova Zelanda
Costa Azzurra Anni ’30
Pietro Citati ne rievoca i momenti più tragici in pagine di grande letteratura, e ci fa affezionare a questa fragile creatura morta prematuramente. Gli inverni freddi, il mare in burrasca, le terribili allucinazioni, la distanza da un marito insensibile e da ogni altro contatto umano, e infine l’approdo a un periodo di fervida creatività in cui, in due soli anni, la Mansfield avrebbe creato la maggior parte delle proprie opere nella speranza di poter magicamente guarire, da un male che però la consegnerà in breve alla morte. Anzi, quasi incalzata dalla malattia, sembra avere dato tutto il meglio di sé in racconti che sarebbero rimasti eterni.
Katherine Mansfield e Janet Frame due anime della Nuova Zelanda
Costa Azzurra – Cap Ferrat
Facciamo un balzo di sessant’anni circa, e ci ritroviamo nell’Otago sulle tracce di una scrittrice misteriosa, più volte candidata al Nobel, capace di evocare la propria infanzia nei minimi particolari e di creare una rete di ricordi e di piccole sensazioni e dettagli di vita famigliare, di nome Janet Frame, che divenne famosa negli anni’90 per la trasposizione cinematografica dei suoi libri (Un angelo alla mia tavola). Anche qui ci confrontiamo col dolore e la fatica di vivere, anzi, il male profondo di vivere, ma la Frame ha il dono della fiaba, che tutto lenisce e volge in tenerezza e struggente ricordare, in modo da distanziarci dalla materia cruda e viva del Male.
L’Otago della Frame è una terra dalla natura selvaggia, dove vivere una infanzia – quasi – felice nonostante le umili condizioni della famiglia, il padre ferroviere, che ama molto moglie e figli, nel tempo libero dipinge a olio, suona la sera la cornamusa ai bambini, canta, e cura le galline. Una famiglia dalla grande capacità empatica, una di quelle famiglie unite malgrado le privazioni, dove l’amore e la gioia profonda per l’esistenza fanno superare ogni guaio. Gli inverni sono freddi, nelle precarie casupole fornite dalle ferrovie, ma basta una stufa e il suono della cornamusa per lasciare tutto il gelo e il buio della notte nera come la pece fuori dalla finestra. Lasciare fuori il dolore. Gli elementi della natura, le canzoni, le voci dei grandi, gli aneddoti, sono una rete di parole, una trama fitta di emozioni che danno alla Frame la certezza di stare al mondo, e di appartenervi. Come quel cielo alto e azzurro, abitato dai falchi, e non estraneo, impartecipe, schizofrenico, un cielo diverso da quello che ci ha raccontato Arthur Schnitzler in Morire, o abitato da incubi e mostri, come nella mente della Mansfield. Ricordava, la Frame, di avere una sensazione di emozione e aspettativa verso il mondo, e il Mondo era il suo posto, come la betulla, gli insetti, l’erba, le canzoni del padre la madre la nonna e i ricordi, cui, su tutto, si stendeva il cielo, che conteneva e dava risonanza al suo abitare questo Mondo. A Oamaru – una delle tante cittadine dove il padre veniva continuamente trasferito (possedevo un senso esasperato del moto e del cambiamento) – davanti a una delle sue amate piante di macrocarpa, nel pieno delle sue avventure in giro per gli scali merci e i luoghi più riposti del paese, come vecchi negozi e officine dismesse, disse di essere divenuta 
pienamente consapevole di (se) stessa come di una persona di questa terra, legata da un sentimento di fratellanza alle altre creature e colma di gioia per tutto ciò che (vedeva e sentiva) intorno a (sé) e inebriata dall’attesa del gioco, un gioco che sembrava non avere mai fine, dopo la scuola fino al calar della notte (…).
Katherine Mansfield e Janet Frame due anime della Nuova Zelanda
Katherine Mansfield col marito John Middleton Murry
Alla Mansfield, cuore altrettanto fragile, ma molto più infelice, è mancata la fiducia nel cielo, nella natura, nella famiglia. Ciò non le ha permesso di provare appartenenza per alcunché, e quindi un’angoscia primitiva e catastrofica.
Gli slanci che provava per i fiori del giardino nella villa in Costa Azzurra, appartenevano anch’essi al registro patologico di un’anima in bilico tra due eternità, la letteratura e la morte, entrambe entità vaste e annichilenti. Non c’era pace nel suo animo, nemmeno in quelle brevi estasi spirituali tanto dolorosamente descritte da Pietro Citati.

Quello della morte è un tema che la Frame affronta come di passaggio, senza soffermarvisi con retorica o affanno, un cenno che ella dà dell’evento tra le tante cose che capitano, come il comprare un quaderno, carezzare un coniglio, rammendare un calzino. C’è tanta consuetudine in lei con i drammi della vita, e altrettanta accettazione delle sciagure. Lo spavento per la morte della sorella, poco dopo la vacanza a Rakaia per la pesca al salmone, arriva al lettore con la naturalezza con cui cade la mela dall’albero. L’enorme capacità di assorbire il dolore da dove le proviene? Resta forse il mistero più grosso della vita di Janet Frame. La sua, e quella della Mansfield, sono state due vite simili, eppure molto diverse. Le vite di due grandi scrittrici neo zelandesi.

 

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