Venezia l’Arte l’Amore la Bellezza
Rio Marin, le luci della Fondamenta, fiammelle rossastre che tremolavano sul filo dell’acqua, e che si disperdevano in esplosioni di iridescenze al passaggio di una barca a rompere con la sua prua affilata il vetro di bottiglia, in cui annegavano riflessi i passi delle persone sulla riva di pietra. Attorno ai lampioni, un alone luminoso che la nebbia serale dipingeva in una visione di Turner o Fontanesi.
Angelo ne amava l’idillio e il romantico aderire a un ideale. Ma anni più tardi, ci sarebbe voluta tutta una vita, scoprì che l’artista inglese non era un pittore pacifico e compreso totalmente nella sua arte, ma un pianificatore capitalista e gretto, un concreto materialista che offendeva lo stesso studio della luce in cui egli pur tuttavia eccelleva. Luce, idea, speranza e coscienza. Nei quadri di questi due pittori, Angelo fissava il dissolversi della Forma in pura Luce, il mistero del colore che non ha contorni netti, che non sottolinea i particolari ma lascia all’occhio il piacere di immergersi in un mondo evanescente di sogno. Era infatti di quel periodo la sua lettura dei primi testi di psicoanalisi, e la sua sensibilità si stava orientando verso la materia sognante, che già andava apprendendo dai romantici tedeschi. Del sogno e del sognare Angelo scopriva gli studi antichi, da Aristotele a Artemidoro a Gerolamo Cardano, in letture fugaci come lampi di tempesta. Si accendeva il cielo della sua mente di una luce sulfurea, le nervature di quella mappa interiore parevano il reticolo di vene del corpo umano studiato da Leonardo, pagine che lui scorreva con avidità mai paga, ma troppo velocemente per formarsene una compiuta visione. Si sarebbe ritrovato, nel giro di pochi anni, a possedere una grande mole di conoscenze fisiologiche e psichiatriche, una cospicua materia informe che non riusciva a trovare un contenitore adatto, da qui, la sua infausta fuga nel sogno come atto di auto-salvazione. I lampioni fissava riflettersi nel canale, non distante dalla grande cattedrale dei Frari, e da quel negozietto di dolciumi dalla vetrina che si apriva con un suono di campanella civettuolo e tenero in serate fredde, presieduto dalle due vecchie signore dai capelli bianchissimi, la voce rotta dall’età, uno stanzino con un tavolino e due sedie sotto la vetrata dagli stipiti di legno lucido e le finiture di ottone che racchiudeva un mondo di colori squillanti fatto di zucchero, cioccolato, confetti, biscotti teneramente avvolti in carta crespa dalle tinte color cielo. Lui e Paola vivevano un amore tenero e intellettuale, da preraffaelliti. Tanto ne avrebbe appreso in età matura, leggendo tardivamente le pagine di John Ruskin, e capendo a ritroso quello che era stato. Campo San Polo, gelo novembrino, la differenza tra ceramica e porcellana, una delle tante lezioni estemporanee di Paola, un alberello spoglio in mezzo al campiello, un uomo in prigione tra quattro pareti di mattone, negozio di porcellane preziose, un regalo per sua madre. Ricordi di un’età vergine, di una vita lontana, e la Madonna del Tiziano, che negli intenti del cadorino non aveva alcuna affermazione di fede religiosa – a detta di John Ruskin, che considerava il Bellini, nato 57 anni prima del Tiziano, colui che chiuse la serie dei pittori religiosi di Venezia – ma solo di retorica, messa di lato e non più centrale, una particolarità che Paola volle sottolineargli ancora in una delle sue tante ed estemporanee lezioni di arte e architettura, ma il treno aspettava alla Stazione di Santa Lucia, quando salire il Ponte degli Scalzi per raggiungerlo diventava troppo penoso, e vedere la faccia di Paola riflessa nel canale un addio difficile da ingoiare, le pagine di Anonimo Veneziano, quella musica morente, quella nebbia novembrina e sfatta e sfatta la sua anima in decadente ricerca del Tutto (non era ancora arrivato l’incontro con le barocche e sofferte pagine di un Frederick Rolfe detto Baron Corvo, che avrebbe letto con l’animo ormai placato dei quarant’anni, meglio così…), che cercava risposte nelle poesie appena assaggiate e subito amate di Verlaine e Rimbaud, comprate a San Barnaba vicino al mercato, tutto così intatto, giovane, una sofferenza che era puramente intellettuale, forse una posa fotografica, nulla in confronto alle vere sofferenze che la vita gli avrebbe riservato in futuro, allora Angelo era felice, e non sapeva di esserlo ancora per poco. Aveva solo diciannove anni. Aveva ancora da combattere le sue guerre, da lì in poi, aveva di che crescere, inorgoglirsi, ma anche abbattersi, piangere. La forza di un uomo si vede spesso dalle lacrime che sa stillare. Come Paola gli insegnava, sulla forza della Serenissima, mentre gli parlava camminando per la città, entrando in una chiesa o in un museo, e spesso citandogli Ruskin. Una pagina del suo libro, Angelo l’avrebbe letta molti, ma molti anni dopo, e si sarebbe ricordato della mattina gelida di novembre, a Campo San Vio, di quando Paola reggeva in mano Le pietre di Venezia, e gli leggeva questo magnifico passo:
“La Madonna nella Chiesa dei Frari non è che una figura mondana introdotta nel quadro per fare da punto di congiunzione ai ritratti dei vari membri della famiglia Pesaro che la circondano. Ora questo accade non perché Giovanni Bellini fosse un uomo religioso e Tiziano no. Tiziano e Bellini sono rappresentanti delle scuole nelle quali operarono, e la differenza dei loro sentimenti artistici è una conseguenza della differenza non tanto del loro carattere, quanto della loro prima educazione. Bellini era cresciuto nella fede, Tiziano nel formalismo, e negli anni che corrono dalla nascita dell’uno a quella dell’altro morì la religione vitale di Venezia. La religione vitale, si noti bene, non formale. Esteriormente l’osservanza era così stretta come prima; e il Doge e il senatore erano ancora rappresentati in ginocchio dinanzi alla vergine o a S. Marco, una confessione di fede resa nota a tutto il mondo per mezzo dello zecchino veneziano. Ma osservate nel Palazzo Ducale il grande quadro nel quale Tiziano ha rappresentato il Doge Antonio Grimani in ginocchio innanzi alla Fede: vi è in esso una curiosa lezione. La Fede non è altro che il ritratto mediocre di uno dei meno aggraziati fra i modelli femminili di Tiziano: la Fede è diventata carnale. L’occhio dello spettatore è afferrato prima dal luccichio dell’armatura del Doge: il cuore di Venezia era ormai nelle sue guerre, non nella sua religione”.
Molti, ma molti anni dopo, Angelo riprendeva in mano quel libro, e si voltava indietro a rivedere Paola e Villa Pisani dello Scamozzi dal finestrino del treno che si avvicinava a Vicenza, aprire il proscenio della sua rappresentazione veneziana, anticipando con un’ora di viaggio l’arrivo a Santa Lucia, il suo inoltrarsi in Lista di Spagna sino a Santa Fosca oppure il prendere per il Ghetto Vecchio e Fondamenta degli Ormesini sino alla Madonna dell’Orto. Il cambiare sempre percorso come nelle possibili vie di un labirinto o di un gioco per non sciupare mai nessun istante, per vivere tutto sino in fondo, sino al fondo del barile e consumare tutto, proprio tutto sino alla lisca… Avrebbe rivisto queste cose come impresse in un ovale cimiteriale, un’immagine sbiadita che lascia il cuore in sospeso davanti al mistero terribile della morte, del mai più, del trascorso. Che fine avevano fatto i suoi amici di allora, Paola, le tante persone incontrate? Che ne era delle loro anime? L’architettura della città lagunare aveva conosciuto varie forme, a seconda di come si era evoluto e modificato il suo culto religioso. L’Anima, la Forma, lo spirituale e il materiale, Paola lo aveva fatto soffermare sulla Porta della Carta, e – sempre citando Ruskin – lo aveva portato con la fantasia alla Certosa di Pavia, dove un analogo esempio di gotico normanno, decadente e degenerato, le serviva per spiegare ad Angelo quel fiorire di decorazioni inutili su quello che era pur tuttavia un bel esempio di gotico e di elevazione a Dio. Angelo seguiva le sue lezioni estemporanee a bocca aperta, iniziando a mettere un piede timidamente in quel sepolcro che non solo era Venezia, ma l’arte stessa, forse anche la vita. Il Tempo era pure esso un concetto che cominciava a fargli sorgere degli interrogativi, e – sulla scia di Ruskin, che gli aprì i segreti dell’architettura araba – volle inoltrarsi anche nella lettura di René Guénon, di cui Paola gli aveva fatto qualche accenno relativo alla geometria sacra. Come non ricordare quei momenti di rara felicità, di turbamento, di rapimento? Come non provare ancora quella perturbante sensazione di morte? Come non ricordare il vento di novembre che rendeva la laguna color ardesia, e Campo San Vio battuto dalle sue raffiche il luogo mistico di un incontro col poeta Ezra Pound di ritorno dal Portogallo, quando scrisse A Lume Spento?
Così come Arturo Martini fece pubblicare le prime illuminazioni, sulla scia di Rimbaud loro mentore, a Giovanni Comisso, Pound regalò la fama a Ernest Hemingway. Angelo si nutriva delle vite degli scrittori. Come per una coincidenza, essi avevano amato il Veneto e Venezia, e come per una necessità del destino, anche Angelo si ritrovò a percorrere quei selciati bagnati dall’acqua. I suoi scarponi da montagna lo seguivano ancora, e gli tenevano i piedi al caldo in quei rigidi inverni. Ed erano il simbolo di una sintesi fra i suoi due grandi amori, la montagna e l’Arte; nel mezzo, vi era il simbolo della pietra. L’aspetto formale, si mescolava a quello spirituale. Non avrebbe potuto camminare con altre scarpe, per Venezia. La roccia dei palazzi e delle calli, era la stessa che i suoi scarponi avevano assaggiato in altre verticalità. Ora, ciò che di verticale sussisteva, era la spinta verso l’ideale. C’era in lui più la presenza del Gotico e del Bizantino, con le sue letture della tarda ellenicità, che non quella del Rinascimento, che non aveva mai amato molto. Ma quella città gli stava anche comunicando il sentimento della Morte e dell’Amore. Angelo avvertiva intensa la caducità, in una maniera universale e al tempo stesso individuale. La caduta nel Tempo, teorizzata da Kierkegaard, l’angoscia. Sulla sua pelle viveva il dramma de La Ripresa e della Malattia Mortale. Venezia si prestava ad essere la scenografia dei drammi kierkegaardiani. Le pagine del filosofo entravano in risonanza con le facciate delle chiese, le architetture sovrastate da statue religiose, i simboli votivi e mistici sparsi nella città, la sua mente era sovreccitata e sovraccaricata, e cercava una via d’espressione che non veniva, e da questo ingorgo energetico, come avrebbe detto Freud, era germinata fatalmente la sua nevrosi. Era il tempo in cui i disegni gli riuscivano meglio dietro le copertine dei libri – era quello il tempo delle idee e dei sentimenti più alti – o sulle parti in bianco delle dispense dell’Università. Erano schizzi estemporanei fatti a biro, il più delle volte dal vero, e racchiudevano un animo inquieto e in continuo movimento. Il suo viaggiare verso Est, dopo gli anni della montagna, sempre su trenini locali traballanti e pieni di fumo, con la sua sacca da marinaio in spalla, piena di libri e tabacchiere, un’agendina rilegata in cuoio ormai smarrita, e l’immancabile flacone di Paco Rabanne, oltre a due camicie stirate e un paio di scarponi da alpinismo in cuoio lacero e consunto, era segno di una voglia di vivere la vita in maniera intensa, sulla stessa falsariga dei suoi Maestri, Giovanni Comisso in primis, o l’errante Nietzsche, che leggeva seduto davanti a una chiesa nella sua amata Venezia. Ma l’arte faticava a prodursi e coagularsi in lui, così Angelo viaggiava tra Est e Ovest, Ovest e Est, in maniera incessante, per arginare una cocente sensazione di impotenza espressiva, e convertirla in arte vivente, ovvero, in una vita vissuta come arte. La sua vita stava prendendo quell’andamento girovago ed estetizzante, che poteva già di per sé valere come Opera, in attesa che l’arte venisse a depositarsi in lui. Ma ci sarebbero voluti altri trent’anni. Disegnare sui libri, gli permetteva di non mettersi realmente alla prova su un supporto più consono, come un album da disegno o una tela, e quindi di rinviare il vero e drammatico confronto con se stesso. A diciannove anni, nei suoi occhi c’era tutta la bellezza del mondo e della vita. E quella bellezza non poteva che riversarsi nel tratto delicato e nervoso dei suoi schizzi, pieni di un Amore che non era indirizzato verso un particolare oggetto del desiderio, ma verso la vita stessa in maniera totale e in un sentimento panteista. A quei tempi Angelo inseguiva cose irraggiungibili, assolute. Per ciò stesso, il suo viaggiare, studiare, disegnare, amare, non si concretizzavano in una meta, ma in un continuo spostamento in avanti del limite raggiunto. Era anche faticoso, Angelo era bellissimo e anche magrissimo, mangiava poco, per Venezia camminava notte e giorno, e sugli altipiani del vicentino andava alla ricerca di estatiche e invisibili sensazioni, con amici trovati nelle osterie, o con un frate francescano incontrato sui bancali di San Francesco della Vigna, in un crepuscolo di novembre, con un libro di Platone sulle ginocchia. I suoi amici veneziani, visti i tempi – metà anni’80 – vista la sua magrezza e lo sguardo spiritato alla August Strindberg, temevano potesse avere l’Aids, ma Angelo, lungi dall’essersi mai drogato, era anche sessualmente vergine. La vera disgrazia, fu conoscere il sesso, la corruzione del corpo. Infatti, da quel momento in poi, anche il suo corpo perse di grazia, ingrassò, si corruppe come i suoi pensieri, i suoi sentimenti, il suo tratto, e non disegnò mai più.
Ritrovava proprio in quei giorni, nelle letture dell’età matura, l’incanto di quelle terre, la perfezione di una villa palladiana che si specchia in un canale, l’armonia di una scultura nella nicchia di una chiesa. Comprendeva a ritroso la bellezza che fu, nell’insegnamento del Canova, e si ricongiungeva a quel tempo lontano con rinnovata tenerezza, amore per il Sé smarrito, nella lettura di questo passo:
“Già non si creda (…) bella una opera, se solo difetti non ha: le più sublimi opere non ne vanno senza, e sono bellissime, perché, oltre la bellezza che appaga lo intelletto, hanno la bellezza d’ispirazione, che assale i sensi e trionfa del cuore: hanno l’affetto in sé, hanno in sé la vita, e ci fanno piangere, rallegrare e commuovere a posto loro, e questa è la vera bellezza. (…) Mi vo’ studiando (…) arrivare sempre al mio fine per la via più breve e più semplice: ché quel colpo, che più retto viene, più ferisce: onde non vorrei che fosse da’ vani ornamenti e distrazioni ritardato”. Angelo avrebbe imparato una medesima lezione dallo scrittore Ernest Hemingway, che scolpiva il testo con altrettanta precisione, secchezza di scalpello, non amando gli inutili ornamenti. “Cerchi (…) nella natura una bella parte, e non la trovi? non ti sgomentare; snuda più persone, e sì la troverai: nella natura è tutto, purché sappi cercarlo” e la cercò anche lui, quella “giusta misura” mai trovata, volendo evitare lo sforzo, perché lo sforzo va evitato, e “Se mostri lo sforzo, sei sconcio. Questa misura diè la palma a Raffaello sovra ogn’altro imitatore della bellezza”, e la bellezza, in arte, nello scritto come nella figura, è l’elemento di un linguaggio col quale “l’eloquenza” (…) di scalpello, di penna e di pennello “esprime la natura (…) un linguaggio eroico”. Questi passaggi evocano il contatto vitale e sensuale che Angelo ebbe da allora in poi con la vita e con l’arte, grazie a quel bagno precoce ed estatico con le acque di una città dalle pieghe segrete, gotiche, bizantine e rinascimentali, sino ad allargare il raggio delle sue avventure nella Repubblica di Terra, Treviso, Belluno e il Cadore, Vicenza, Brescia, Bergamo. Il ritorno nei gas e nei grigi cementizi della Milano industriale, sarebbe stato sulle prime luttuoso. Si sarebbe perso nelle letture di libri polizieschi e di fantascienza per lunghi e oscuri anni. La Bellezza che pure aveva solo sfiorato, non gli sarebbe mai più appartenuta.