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C’è un bel cielo bianco carico di pioggia, una magnifica perturbazione atlantica che avvolge ogni cosa. Oggi fissavo questo cielo, mentre una insistente pioggia fine e battente sferzava strade e marciapiedi con quel fruscio o rumore bianco che, unito al biancore avvolgente dell’aria, mi faceva sentire in uno stato di quiete, malgrado fossi nel centro trafficato della città. Ricordai le parole di un personaggio letterario, del romanzo Morire di Arthur Schnitzler, in merito al cielo: egli aveva paura delle giornate assolate, della lastra azzurra e luminosa del cielo, accecante e vasta e profonda, perché gli dava la sensazione di poter essere inghiottito all’in su dalla profondità infinita e mortale del Cosmo. Ricordando queste parole, gli davo ragione. Un cielo bianco e nuvoloso, al contrario, crea una barriera protettiva tra te e l’annichilente infinitezza dell’Universo, ti protegge dall’annullamento e dall’accecamento. In particolare, la presenza dell’elemento liquido, con vapore e pioggia, aggiunge a questa sensazione di protezione uterina la presenza dell’elemento femminile, introspettivo, intimo, caro ai poeti e agli artisti e a tutte le anime sensibili, che saranno anche portate a prediligere l’autunno come stagione. L’autunno, stagione di rigenerazione, di grandi progetti, di immense letture, di serenità contemplativa, di calma interiore. Avviene un rallentamento fisiologico di tutta la macchina naturale, e anche del tuo sistema vitale, che si protegge dalle eccessive sollecitazioni della vita causa di stress. Al suo avvicinarsi, da qualche anno, per festeggiarlo, allestisco l’albero di Natale già il primo settembre. Una ritualità che mi sono inventato io, contravvenendo alla regola del calendario, e che allunga sino a gennaio la magia di quell’attesa metafisica, generatrice di una gioia silenziosa e calma, che è il Natale. Per me il Natale non ha un senso religioso, ma magico, primitivo, pagano, legato alla stagionalità, alle sferzate delle tempeste ottobrine, ai giardini carichi di foglie ingiallite, all’odore di muffa e umido che aleggia nell’aria. E così anche le mie cene diventano un momento di introspezione, di ricerca, vado a leggere nei miei molti ricettari le ricette di minestre di tutti i tipi, calde e saporite e fatte con ingredienti poveri. Protagonista di questi piatti, sono sempre le cipolle, che compro nei negozietti etnici pagandone un sacco di 5 kg circa 4 euro (una volta costavano 3,50). Mi dò una meta con la mia cagnolina Pepe per andarle a comprare nel negozio bengalese a mezzora di strada da casa mia, con lo zaino in spalla, e avere l’occasione di bere un caffè, o di mangiarmi un piatto di quelle stesse cipolle stufate, che Maria, una rumena che ha il chiosco lì vicino, usa per farcire i suoi panini, e che a me offre da sole chiedendomi solo 2 euro. Siedo al tavolino riparato da un telone di plastica, mentre fuori tira vento e piove, e magari un povero zingaro dagli occhi così neri da sembrare carbone, ti fissa col suo viso rugoso e il suo silenzio così dignitoso, remoto, metafisico, e quel suo sorriderti lievemente, ti invita a rivolgergli la parola. Potrebbe avere la tua età, ma è così stagionato dalla vita, dalle privazioni, dalla povertà, da sembrare un fossile senza età, una di quelle presenze eterne che si incontrano sulle Alpi, come abeti centenari o rocce millenarie. Mi vengono in mente i libri di Emil Cioran, guardando questo zingaro, penso anche alla pittura di Filippo De Pisis e di Willy Varlin. Ringrazio la vita per avermi fatto il regalo dello studio, dell’amore per l’arte e la letteratura. Diversamente, forse avrei guardato questo miserabile venuto da lontano con paura e disprezzo. Sono molto lontano tuttavia dall’avere entusiastici sentimenti cosmopoliti e fluidi in fatto di immigrazione, molti, sentendo quello che dico, potrebbero scambiarmi per razzista. La verità di fondo, però, che anima le mie idee sull’immigrazione, la mia esasperazione e la mia paura per certi fatti di violenza incontrollata, non è razziale, etnologica o geografica, ma squisitamente politica, avendo un profondo disprezzo per i politici italiani che alimentano questo fenomeno, giustificandolo a fini elettorali, spacciandolo per umanitarismo. Siamo ormai tutti, proprio tutti vittime della globalizzazione, ne sono vittime gli immigrati, ne siamo vittime noi. E la convivenza diventa difficile, se non impossibile, quando la crisi (una crisi creata e pilotata a tavolino per sottomettere la popolazione, indebolirla moralmente, fiaccarla e renderla incapace di reagire), attanaglia i singoli, sfascia le famiglie e le imprese, impoverisce in maniera irreversibile il ceto medio. Dilaga così la paura, il rancore, la rabbia, ce la si prende col primo immigrato che si incontra. Non lo si vorrebbe anche lui tra i piedi, anche lui povero e miserabile, come ci vediamo noi proiettati in una prospettiva futura e non molto improbabile. Si ha paura, una dannata paura di essere contagiati dalla miseria, come dalla lebbra. I politici progressisti, invece, gettano alcool sul fuoco della globalizzazione che proprio loro hanno voluto, costruito e pianificato, gettando nella povertà intere fette di popolazione e destinandole a un futuro completamente privo di tutele e garanzie, quelle tutele che lo Stato Sociale aveva un tempo garantito a tutti, in nome di una Sinistra storica che non aveva ancora voltato le spalle ai lavoratori. Dai principi di pari opportunità, equa distribuzione della ricchezza, e responsabilità pubblica per i cittadini più fragili, i progressisti sono passati a parlare di un tema evanescente quanto pilotato e manipolante, come i diritti civili. Un tema patinato, un problema che diventa fonte di distrazione di massa quando il vero problema è che la gente sta morendo di fame. E per questo motivo, cade preda di altre problematiche, come la ludopatia e l’uso di sostanze, vere emergenze e piaghe sociali, di cui lo Stato se ne frega, e sul quale al limite lucra indisturbato per quanto riguarda le lotterie legali. La cultura mainstream, l’editoria di massa, invece di fare circolare le voci di dissenso, creano in vitro un dissenso pilotato e inoffensivo, come il femminismo da put*ana (sue parole) di una famosa cantante, come i romanzi antifascisti di Scurati, come la letteratura di una certa ala pseudo intellettuale integrata nel tessuto economico finanziario, che vuole criticare senza ledere il Sistema, come avviene con molti romanzi scritti oggi sull’onda di un finto impegno sociale. Ormai, già il fatto che le tue idee e le tue opere circolino nei canali ufficiali dell’informazione e della distribuzione editoriale di massa, significa che esse nascono già prive di artigli e di armi dialettiche capaci di criticare e incidere significativamente sul pensiero del pubblico, avendo di fatto l’editoria completamente rinunciato a ogni possibile spunto pedagogico, ed essendosi alleata al potere finanziario/amministrativo che sta alle spalle di ogni processo volto a plasmare in una unica direzione l’opinione pubblica, quella del consumo e del rendimento.
Così, si consumano i libri, nella stessa maniera con cui si consumano lavatrici, cene al ristorante, abbonamenti telefonici, incontri sessuali con le escort, droghe ormai rese di fatto legali. Il Sistema politico finanziario si garantisce in questa maniera il consenso assoluto, grazie anche alla normalizzazione della trasgressione, soprattutto attraverso i suoi feticci pseudo artistici, come gruppi musicali del tipo dei Maneskin.
La confusione mentale, la perversione, l’atteggiamento manipolatorio istrionico narcisista, vengono così assorbiti dalla cultura mainstream in tutte le sue declinazioni: politiche, artistiche, giornalistiche; in una sola parola, vengono assorbite dal politicamente corretto, che è una forma di pensiero moralmente corrotto (per citare Diego Fusaro), capace di abituare il pubblico massificato a stili di pensiero deficitari, deboli, patologici e infine perdenti, sottomettibili, un pubblico che, pur blaterando di diritti civili, non accampa più alcun diritto, obbedisce, paga, lavora da schiavo, si svaga come può, si ammala, muore.
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