Dove ognuno pensa per sé
Fermiamoci: non si può andare avanti così. Con questo micromaterialismo volgare che pervade ormai la nostra società, dove tutto ha un prezzo, ma niente ha realmente valore. (Mario Capanna)
Il flusso è incessante come la pellicola di un film. Nel luogo più cinetico che esista, la metropoli, nulla sta fermo, tutto è in movimento, come il mare, con il suo incessante moto ondoso. L’osservatore di questo movimento prova una sensazione di instabilità. La metropoli, impersonale e in costante moto su se stessa, assomiglia a un qualsiasi macchinario, a un oggetto meccanico, le cui parti, gli umani, le automobili, sono pezzi, componenti spersonalizzati di questo grande meccanismo unificante, spersonalizzante e alienante. Le singole parti di questo meccanismo, gli umani, siano essi studenti, impiegati, criminali, operai o dirigenti, pensionati e artisti, non hanno relazioni reciproche, non si conoscono né hanno contatti personali, tuttavia vivono in questo corpo meccanico schiacciati e compressi gli uni contro gli altri, in una promiscuità forzata e involontaria, spesso collidendo e generando attriti e conflitti, quasi mai empatia amicizia o solidale partecipazione alle vicende dell’altro. Nel corpo della macchina lanciata verso uno scopo che trascina le varie parti, ma le mantiene estranee le une alle altre, le solitudini viaggiano parallele e inaccessibili al contatto. Le grandi città divorano le vite, bruciano la vita umana come combustibile per assicurare il movimento di questo febbrile meccanismo, il cui scopo sfugge ai singoli, ma il cui senso assume significato nella somma dei singoli destini. A pensarci bene, la città uccide, succhia energie, e così si mantiene in vita, come un vampiro. La città moderna è lo strumento produttivo del capitalismo vampirizzante.
Vi si genera così alienazione e solitudine, e questo è un processo inevitabile. La sua attrattiva fa sì che al suo interno si mescolino e collidano svariate tipologie umane, etniche, sociali, venute a farne parte per scopi economici.
L’osservatore si vede passare davanti agli occhi un catalogo infinito di personalità, anche spesso aberranti, e il suo occhio sapiente, con l’esperienza, diviene in grado di catalogare e collocare i singoli pezzi all’interno di tipologie e famiglie ricorrenti.
Come un naturalista, un Linneo, l’osservatore acuto ed empatico coglie la ricorrenza di certi tipi. Non gli sfugge, ad esempio, la solitudine del cinquantenne inasprito verso la vita e le donne, con un piccolo gruzzolo in banca, che beve il suo amaro solitario seduto al tavolino di un bar, dietro gli occhiali scuri, il volto rossastro da bevitore incallito, il corpo magro e senza particolari attrattive, arido quanto il suo aspetto generale, che deve a una serie di delusioni non smaltite, che butta giù l’amaro con un sorso quasi arrabbiato e definitivo, ma composto, e se ne va, con aria indifferente alla vita. Questo tipo umano è l’esempio della desertificazione etica e morale tipica della grande metropoli, del qualunquismo messo in atto dalle categorie inaridite dalle delusioni, ma anche condizionate in partenza dal proprio egoismo.
Non gli sfugge, ad esempio, il professionista metodico e ossessivo, forse geometra del Catasto, che cammina con passo regolare e volto sorridente, valigetta alla mano, camicia perfettamente stirata, bianca o celestina, o maglietta, a righe, stirata anch’essa alla perfezione, e jeans, anch’essi stirati con la riga, e mocassini lucidi. Non ha grandi preoccupazioni se non quelle inerenti calcoli di linee e rette e perimetri, che rientrano in un rassicurante meccanismo burocratico ripetitivo privo di sorprese. Il tipo qui descritto rivendica solamente un piccolo posto al sole, riga dritto, è completamente assuefatto alle regole, spesso assurde e ingiuste, della burocrazia. Vittima lui stesso di un Sistema oppressivo, si fa carnefice a sua volta, anche se i suoi “crimini” sono di lieve entità e assecondati dal Sistema.
C’è la ventenne carina e sfrontata, che cammina ancheggiando con passo di sfida, che controlla nelle vetrine la propria immagine riflessa, fatta di short quasi pornografici, tatuaggi mercificanti, come marchi su un prodotto, essa stessa “prodotto” di un conformismo che lei crede di non esprimere, ma che tradisce con la sua continua insicurezza sociale, vanità, il controllarsi che tutto in lei sia secondo la regola del piacere agli altri, del sedurre e forse anche del ricattare. Sicuramente anima iperconnessa, inghiottita da Instagram, una personalità completamente dissolta nell’economia digitale, che tuttavia accampa mal digerite idee rivoluzionarie e femministe… ma dove?
Nella metropoli ci sono anche gli amorali, i delinquenti, gli idioti che ne fanno da manovalanza, i gregari dei leader del raggiro e della truffa capaci di creare un mondo parallelo. Hanno facce amorali. Lombroso avrebbe avuto di che dire. Le stesse che vedi nei bar acclaratamente gestiti dalla mafia. Popolino che si è ripulito i pidocchi di dosso con una doccia di soldi. Soldi? Sì. Spesso illeciti. Ex fattorino diventato milionario, marito di una truffatrice seriale, ora gestisce locali e gira in Ferrari. Faccia alterata dal vuoto morale, dall’assenza totale di neuroni. Tratti delinquenziali. E’ rispettato come il suo orologio. Audemars Piguet. Il rispetto dovuto ai soldi. Genuflessioni, pompini, che fanno saltare i tappi. Allegria superflua in questa Milano pezzente. Procacciatrici di orgasmi a pagamento, con labbra a canotto e occhi che sono buchi neri di idiozia, applaudono e mandano gridolini mentre la schiuma scende nei calici. Scenette di orgasmo demenziale, krapfen ricolmi di una crema corrotta, soldi a palate. Tutto è lecito in questa città allo sbando. I politici danno il buon esempio. Scarsa qualità della nostra classe politica che fa da guida alla scarsa qualità umana di certi influencer che educano le masse. Saltano i tappi. Da altre parti saltano i posti di lavoro. Nessuno dice be’. Il Caos domina la metropoli. E il brutto ne è il segno distintivo. Le diseguaglianze sempre più esasperate. Chi sta sotto, chi è in fondo alla scala sociale, non lotta più per un mondo migliore, no: vuole solo risalire la china, e magari divenire lui quello che schiaccia gli altri. Nessuno scrupolo nel fare agli altri quello che tu stesso hai subito: è la logica dell’ascesa sociale 3.0, del mors tua vita mea.
Nella metropoli vige lo stato di natura, l’onnipotenza della vita selvatica. Per questo le metropoli sono fragili, agglomerati umani che stanno insieme per una serie di concause economiche, migratorie e politiche estranee al vero significato dell’unione fra individui, che è l’Amore, la Solidarietà, e perciò, destinate a sfaldarsi e implodere. Magari a seguito di eventi catastrofici e incontrollabili, con effetti a catena sugli individui che, presi come massa, non hanno cervello, ma solo istinto auto difensivo. Inutile dire che, in questa dimensione, ognuno pensa per sé.
Estraneità, anomia, non partecipazione collettiva, sono alcuni tra gli elementi che connotano la vita moderna, soprattutto nelle metropoli. Ma, traslando questi concetti, li ritroviamo appieno anche nella cosiddetta arte e nella cosiddetta cultura. Dico “cosiddetta”, in quanto di arte e cultura non è rimasto che un involucro vuoto a rappresentare qualcosa di ormai tramontato, e che resiste solo sotto forma di marketing capitalista e autopromozione. Finito il tempo della pura ricerca, dello scavo spietato dentro di sé, finito il tempo delle opere della crisi e che mettevano in crisi le coscienze, che tempravano gli animi, guidavano la collettività, è anche finito il tempo della collettività, e non essendoci più niente di collettivo, anche l’arte ha smarrito il proprio senso. Non si capisce a chi si rivolgano oggi gli artisti, che senso abbiano le loro opere. A un indistinto orizzonte di mercato? A un astratto fruitore di prodotti di consumo? A cosa si riducono opere che ci ostiniamo ancora a chiamare opere d’arte, ma che sono in verità prodotti come tutti gli altri, come le lavatrici e le saponette? A cosa si riducono quegli individui che ci ostiniamo ancora a chiamare artisti, ma che in verità sono lavoratori alienati e allineati allo stile produttivo, sottomessi alle regole del marketing politicamente corretto, servitori del pensiero comune? Basta farsi un giro nel web, e ormai di scrittori ce ne è una caterva, che magari sfornano quattro o cinque libri all’anno. Quando il tempo per scrivere decentemente un romanzo, nel ‘900, era almeno di due o quattro anni. Gestazioni veloci, si sa, mettono al mondo figli deformi, o aborti. Agli editori non importa se un libro è un aborto, illeggibile, scritto male e pieno di refusi. Perché la figura del vecchio editore non c’è più, ma è stata sostituita da quella dell’amministratore delegato, che deve solo far quadrare i conti, generare profitto. Ben venga allora che uno scrittore che abbia abbastanza follower sforni quattro aborti all’anno, anche cinque, anche sei… Che senso ha tutto questo? Sembrerebbe non averne. Ma un senso ce l’ha.
Il senso è da ricondurre al fenomeno della Produzione Sociale dell’Ignoranza.
La democrazia è veramente a rischio? «Certo», dice Fabrizio Tonello, professore di Scienza Politica presso l’Università degli Studi di Padova, che ha pubblicato il libro “Democrazia a rischio. La produzione sociale dell’ignoranza”.
Approfondendo questo argomento, ci si rivela come la modernità abbia divorato ogni forma di sapere e di eccellenza che avevano resistito sino a prima dell’avvento della Globalizzazione, e come oggi la finanza internazionale (che è il vero Potere sovranazionale e sovrapolitico), prema verso forme sempre più omologate di società, amalgamate dai consumi e dal digitale, dove sia bandita l’eccellenza, l’intelligenza, valori tradizionali di forza, orgoglio, individualità, a favore di mediocrità, debolezza, malattia, insicurezza, secondo lo schema politicamente corretto, per cui il deficit, la debolezza, la devianza sarebbero elementi di un discorso più ampio, non solo aspetti che, doverosamente vanno tutelati da ogni forma di disprezzo, condanna o oltraggio, ma aspetti addirittura da imitare, incoraggiare, portare ad esempio: i Maneskin cantano Sono fuori di testa, volendo fare della devianza un valore in sé, il manifesto ideologico del politicamente corretto.
Tutto ciò produce ignoranza, ignoranza sociale in tempo di Social. E’ anche naturale che, in un contesto macrosociale così degradato, la cultura sia morta, e l’editoria dia voce a discutibili “intellettuali” che di intellettuale non hanno niente: maschi coi capelli raccolti a chignon, braccia tatuate, sorriso di una bellezza bastarda, camicia bianca aperta sul petto, semplici burini all’ora dell’aperitivo che seducono a strascico poverette senza cervello. E’ di secondaria importanza, se tra i quattro libri sfornati annualmente da questo prototipo di intellettuale del 2024, ce ne sia uno che ricostruisce una vecchia strage nazista, o un incidente ferroviario avvenuto ottant’anni fa in cui perirono ottocento operai. Il marketing difatti, oggi, impone questi temi, temi corretti, politicamente corretti, che si ammantano di etica e di impegno sociale, in una società che si dice inclusiva, sostenibile, eccetera. Ma che alla prova dei fatti è esattamente il contrario, una società dove ognuno pensa per sé.
APPENDICE:
Fa’ caso ai telegiornali, quando intervistano l’organizzatore di un evento. Immancabilmente, nel discorso, tutti pronunciano le due parole magiche, inclusivo e sostenibile. Ho il sospetto che siano obbligati a dirle pubblicamente, pena il licenziamento. Queste due parole, infilate nel discorso, agiscono sugli algoritmi di ricerca, come meta tag, come keywords, sono parole chiave che attestano la moralità, la correttezza politica di un evento, di un prodotto, di una mostra, proprio come la dichiarazione di antifascismo alle conferenze stampa degli eventi, semplici automatismi linguistici che garantiscono l’approvazione. Non costano nulla, nessun impegno, nessun rischio. (leggi tutto l’articolo).
Ci avete tolto la magia di una foto, la poesia di una lettera, la calligrafia, l’odore di un libro, il ritaglio di un giornale, il “ci vediamo alle otto in piazza”, il negozietto di alimentari sotto casa, le infinite chiacchierate in una cabina, i baci su una panchina, la paura che rispondesse il padre al telefono fisso, il diario segreto, il pallone nel cortile, l’attesa del rewind, la dedica alla radio, l’impaccio nel ballare un lento, i giochi di società, la comunicazione.
Quando la tecnologia avrà seppellito anche l’ultimo sussulto relazionale, avrete completato l’opera inarrestabile di desertificazione emotiva, perché allora, e solo allora, ci avrete reso animali urbani, sempre più vicini, eppur così lontani.
-Michelangelo da Pisa
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