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Avvertivo sotto di me gli scarponi percuotere ad ogni passo le pietre del sentiero. Dapprima pianeggiante, il sentiero si faceva gradualmente più ripido. Mai ripido come altri sentieri della zona, come quello per la Gianetti. Su questo tracciato, per salire alla Porro, con un buon allenamento si può camminare senza fiatone, osservando la vegetazione attraversata dai raggi di sole, le conifere alzarsi alte e dritte contro il cielo di cobalto. Ancora un pezzo, e avrei sentito il rombo del torrente. Ancora cento metri, e sarebbe apparsa la vetta del Pizzo Ventina, una cresta frastagliata e, sotto, la parete grigia punteggiata di piccoli nevai aggrappati alla roccia come ragnatele, un ghiacciaio pensile dalla seraccata assomigliante a una bianca meringa. I contrasti sono forti, sempre più forti man mano che si sale di quota.
Ero un ragazzino di sedici anni. Vedevo quelle montagne per la seconda volta. Scoprivo le potenzialità atletiche e il coraggio insiti in me. La roccia mi aveva appassionato sin dal primo tiro di corda col Dante Porta sulle pareti calcaree di Scarenna, l’anno prima, quando, qui al Rifugio Porro, con la Guida Livio Lenatti, salii al Cassandra lungo la normale, una vetta che superava di poco i 3000 metri di quota, ma era pur sempre il mio primo 3000. Da quella sommità potevo vedere, incombente come una cattedrale, la Est del Disgrazia, una piramide di roccia e neve, svettante, dalle linee eleganti, rigonfia di seracchi e cornici innevate in un connubio di roccia ghiaccio e cielo color cobalto, da mozzare il fiato. Capivo che per desiderare di salire una parete, ci si deve innamorare delle sue linee, come, molti anni dopo, avrei capito che per andare con una donna bisognava essere attratti dalle sue forme. Le mie prime donne sono state queste montagne, le montagne del gruppo Masino-Bregaglia-Disgrazia.
II
Un sogno, e poi una nevicata, mi fecero prendere la decisione di scrivere queste pagine.
La maniera in cui abbandonai l’alpinismo all’età di diciotto anni fu brusca e, se non fisicamente traumatica a causa di un incidente, lo fu psicologicamente, e mi diede residui di disagio psicologico – manifestantesi oniricamente – per altri sedici anni, sino a quando, alcuni giorni fa, non feci un sogno liberatorio. Nel 1985 avevo al mio attivo un buon curriculum, ero pronto a fare gran parte delle Nord dell’arco alpino, per poi partire per la Patagonia. Io e Dante avremmo voluto tentare il Cerro Torre. Nel giro di tre anni, ero diventato uno scalatore molto capace su granito, la mia tecnica di salita si era affinata nella progressione in fessura, e Dante mi riteneva pronto per affrontare i pinnacoli granitici del Bianco, come degno antipasto per l’America del Sud.
Ricordo un episodio di quel lontano 1985. Eravamo io e Dante. Il sentiero saliva ripido tra pratoni e piode, verso la Gianetti. Era faticoso, con zaini di venticinque chili sulle spalle, malgrado scaricassimo il peso procedendo con i bastoncini da sci. Camminavamo da circa un’ora e mezza, senza mai una sosta. Il rifugio era ancora lontano. Non credetti ai miei occhi quando Dante, mio maestro ed eroe, che aveva fatto la Nord-Est del Badile in 1^ solitaria invernale, che aveva aperto nuovi tracciati sulla Nord dell’Eiger, che aveva fatto l’ Himàlaya, stramazzò a terra in preda a una crisi ipoglicemica. Mi chiese, sofferente, sfiancato, dei biscotti. Era coricato, il volto contratto dallo sfinimento. Non accettavo dentro di me il fatto che il mio maestro mi mostrasse quella sua fragilità. Avevo con me dei costosissimi biscotti tedeschi ripieni di prugne e fichi. Gli passai la scatola. Bastò che ne mangiasse cinque o sei, per rialzarsi e proseguire nel cammino. Questo fatto lontano mi fa pensare che eventi come questo segnano la fragile – anche se non precaria – psiche del discepolo, ma, al tempo stesso, lo costringono a crescere e a staccarsi dal maestro. Quella volta, dopo la crisi ipoglicemica del Dante, proseguimmo sino alla Gianetti, dove intendevamo stabilirci una settimana, per fare tutte le classiche del gruppo Cengalo-Badile. Dal fondo del sentiero erboso, coperto qua e là di piode granitiche di un grigio intenso e compatto, cosparso di licheni verdi, alzavo la testa e scorgevo, tinteggiate dal tramonto, le scabre pareti Sud del Cengalo, del Badile, della Sertori, della Torelli. Dante aveva ripreso le forze. Io ero scosso da fremiti d’entusiasmo, e al tempo stesso una oscura paura mi si annidava nell’intestino, dandomi crampi di dolore, alla vista di quelle tremende masse granitiche. Ormai non potevo tirarmi indietro. Se non l’avevo fatto il mese prima, dall’altra parte di quella costiera, in Bregaglia, sulla Giovanoli al Pizzo Balzetto, non potevo e non dovevo farlo ora. Ero un pavido che tirava fuori il coraggio all’ultimo momento, per non fare brutta figura coi compagni di cordata. Mi allenavo duramente, e mettevo nello scalare tutta la prudenza che riuscivo ad avere. Ma se la montagna mi ha risparmiato, è stata anche fortuna. Grandi alpinisti, molto più bravi e coraggiosi di me, sono morti in parete, e in questo la fortuna non è stata dalla loro. Le pareti che – salendo alla Gianetti – mostravano la loro imponente bellezza, maestosità, una bellezza che aveva anche qualcosa di funereo ed esaltante, le avrei sognate per altri sedici anni. Eleganti come sculture, puntavano dritte al cielo. Affilate come lame di rasoio, correvano verso l’alto in salti di mille metri. Le cime si fermavano nell’azzurro denso del cielo, come incastonate. Dopo le scalate che avrei fatto in quella settimana nello scenario del Badile e del Cengalo, le ultime scalate della mia vita, avrei sognato ancora, per sedici anni, quelle pareti. Sogni estenuanti, frustranti, all’inseguimento di un contatto con la roccia che la vita mi negava, e mi veniva negato anche nel sogno. Da quella estate del 1985, a parte un tiro di corda di venti metri l’anno seguente, non ho più sentito la roccia sotto il palmo delle mani. Non ho più avvertito il vuoto sotto di me, e il vento sferzante dell’alta quota sul viso. Non ho più assaporato il piacere di affondare la piccozza nella neve compatta di un pendio a 70°, o di affrontare coi ramponi un ripido canalone ghiacciato. Se provi simili esperienze, ti mancheranno tutta la vita. Senza di esse diventa un continuo ricordare, un malinconico guardare al passato. Credo di non aver chiuso correttamente i conti con la Montagna. Nel 1985 io e Dante avevamo grandi progetti. Progetti che non si avverarono. Per una futile slogatura alla caviglia, poco dopo la crisi ipoglicemica durante la salita alla Gianetti, Dante non poté più scalare per tutta quella estate. Io andai al mare, e continuavo ad attendere che Dante guarisse. Continuavo a correre sulla riva del mare e a fare flessioni sulle braccia. Ma l’estate finì, e venne l’inverno. Venne di nuovo la scuola, la quinta superiore. Senza che me ne rendessi conto, sceso dalla Val Masino con i segni dell’alta quota sul viso, le ferite del granito sulle mani, sedendo tutto il giorno sulla riva del mare, lontano dalla montagna – quell’alto Adriatico ai confini col Friuli, che amavo da sempre quanto la montagna, forse più della montagna, perché fu la prima cosa che amai – con un libro in mano, mi stavo innamorando della letteratura. La lettura di Svevomi fu fatale. Impiegai tutto l’inverno a metabolizzare quella nuova “droga” chiamata “letteratura” e, l’estate seguente, letti tutto Svevo e Comisso, ero pronto ad abbandonarmi, per il resto della mia vita, ai piaceri estetici dell’arte, dell’ozio, del fantasticare, fumando sigarette e apprezzando le prime bevute alcooliche. Nel 1986 mi diplomai con 54/60 e andai al mare. Avevo ancora la corporatura dell’alpinista, lo scatto e la forza dell’atleta. Caratteristiche che mantenni ancora per una dozzina d’anni, senza grossi sforzi né allenamenti, ma che ora, a trentaquattro anni, ho perso del tutto.
Ma veniamo al sogno della montagna.
Dopo sedici anni di sogni frustranti, sognai finalmente di scalare una parete. Nei mortificanti sogni degli anni precedenti, mi trovavo all’attacco di un seracco, puntavo le piccozze da piolet-traction sul ghiaccio, salivo di un metro, poi il ghiaccio si trasformava in gomma piuma, cedeva sotto il mio peso, e io cadevo all’indietro, trovandomi nella mia stanza, schiacciato da un materasso. Altre volte mi trovavo in un negozio di attrezzature. Compravo tutto l’occorrente per andare in parete, ma era come se mi muovessi in un elemento viscoso, i tempi si dilatavano, contrattempi di ogni tipo non mi permettevano di raggiungere le montagne. I sogni più struggenti erano quelli in cui vedevo le pareti della Val Masino in una specie di “corridoio ottico”, in fondo alla ferrovia contornata di palazzi vicino a casa mia, qui a Milano. Distinguevo perfettamente i tracciati di salita, le asperità della roccia, erano bellissime e a portata di mano, e al tempo stesso così terribilmente lontane.
Il sogno che feci qualche notte fa, invece, mi vide coronare una salitina di III Grado su una roccetta di quindici metri. Una salita modesta, che pure io affrontavo con fatica, con le gambe che mi tremavano, ma alla fine raggiunsi la vetta di quel sasso. Questa visione notturna era il segno che mi ero ricongiunto, almeno fantasmaticamente, alla montagna, abbassando le mie pretese. Infatti non avevo sognato di scalare il Cengalo o il Badile, ma una squallida roccetta butterata e friabile, che non dava alcuna soddisfazione, se non quella di dire: “Un terzo grado lo so ancora fare”. Mi svegliai, e andai al lavoro. La nevicata di una settimana prima resisteva ancora nelle strade di periferia, dove la neve, alta un centimetro, si era ghiacciata, come lassù, in montagna. Camminavo per andare al lavoro, e sotto le scarpe, nel silenzio del mattino, sentivo ancora il crepitare della neve ghiacciata che si spaccava, proprio come in quelle albe invernali, all’uscita dal rifugio, camminando verso l’attacco della parete.
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