BIVACCO sulle Orobie
Sognava sempre il granito. Lo aveva anche studiato sui libri. Aveva scoperto che quelle spaccature nette, che danno vita a placche lisce come asfalto, a diedri aperti come pagine di libro che si incuneano sotto drittissimi tetti, quelle visioni aeree e potenti, erano dovute alle cosiddette linee di clivaggio, linee che percorrono di netto la montagna, e ne determinano il distacco di intere porzioni – con l’effetto combinato di gelo e disgelo – secondo diritture geometriche dalla bellezza ineguagliabile, precise e taglienti. Effetto che, ad esempio, le rocce calcaree, lavorate dall’erosione, non offrono. Si era studiato le fotografie del gruppo del Monte Bianco, della Yosemite Valley, di certe catene montuose di granito dell’Hiamalaya, cime magari poco famose ma molto ardite per la loro forma, e della Patagonia. Suo sogno era scalare una grande parete di granito, una Big Wall, per dirla nel gergo dei climbers americani alla Yvon Chouynard. Le sue scarpette da roccia portavano il nome di questo grande climber americano. Erano di robusto scamosciato color grigioverde, le stringhe rosse, e aderivano perfettamente alla roccia grazie alla suola di aerlite. Una pasta di gomma molto duttile, che si consuma in fretta, e va risuolata anche due volte all’anno. Lo affascinavano le immagini di scalatori impegnati su pareti scoscese di granito a 6000 metri di quota, che progrediscono con gli scarponi, anziché con le scarpette leggere – che non scalderebbero a sufficienza i piedi – e puntano lo scarpone su piccole escrescenze rocciose, come minuscoli gradini naturali, in esercizi di equilibrismo faticoso ed estremo. Si era esercitato anche lui a fare salite di quarto e quinto grado in palestra, con gli scarponi doppi da alta quota. Sulle prime era divertente, ma un’intera salita con quei pesi ai piedi si sarebbe dimostrata molto faticosa. Se doveva affrontare la Nord del Cengalo, doveva abituarsi a scalare il granito con i pesanti scarponi doppi. Aveva visto sulla guida la relazione tecnica della Via Gaiser Lehmann: semplicemente terrificante. Un buon antipasto per la Patagonia. Volendo andare in Patagonia l’anno seguente, era necessario affrontare le Big Wall della Val Bregaglia e il Bianco, con attrezzatura da salita su misto. Saper affrontare interi passaggi su roccia coi ramponi ai piedi, perché subito dopo c’è da salire una rampa ghiacciata. Passare disinvoltamente dal ghiaccio alla roccia senza togliersi i ramponi, e viceversa, perché queste erano le condizioni delle pareti ad alta quota. Saper piantare un chiodo da ghiaccio in maniera sicura, e risalire una corda fissa con la maniglia jumar. Saper ritirare il sacco da carico, e guadagnarsi una cengia per il bivacco notturno. Sogni… sogni…
Era passata la bufera?
All’interno del bivacco era riuscito a pensare a queste cose, mentre fuori il vento sollevava folate di nevischio gelido sul ghiacciaio del Diavolo. Era stato bloccato dalla bufera, e mancavano ancora due ore di cammino per raggiungere il rifugio. Le scarpe da ginnastica Adidas, ormai logorate dal lungo trekking, riposavano all’interno del sacco a pelo, nel quale lui era steso sorbendo una tazza di brodo, fatto sciogliendo un po’ di neve col fornello a gas. Il suo compagno doveva arrivare a momenti. Era partito dall’ultimo rifugio un’ora più tardi, ed ora era sicuramente nel mezzo della tormenta. Ma era più esperto di lui, e il bivacco l’avrebbe trovato certamente. Tutti gli altri, partiti con grande anticipo, essendo più lenti, erano sicuramente già arrivati al rifugio, scampando alla tormenta che si era scatenata sul passo all’improvviso. La lamiera del bivacco tremava e vibrava sotto le continue raffiche di vento. Avrebbe passato la notte lì dentro, e l’indomani si sarebbe dovuto sorbire una camminata affondando i piedi nella neve fresca. Anche le scarpe da ginnastica, se la neve è asciutta, vanno bene a progredire su pendii nevosi. Si sarebbe messo un paio di calze di lana in più, e sarebbe stato più che mai attento ai piccoli crepacci del ghiacciaio del Diavolo. La perete incombeva su di lui, una piramide di granito, o forse gneiss, rossastra e austera, con inquietanti spaccature nel mezzo. Il vento fischiava. La tormenta era aumentata nell’ultima mezzora. Il brodo stava finendo, e la lampada frontale tremolava. Segno che la batteria si stava scaricando. La spense, e rimase al buio. Sentiva la grande asprezza della montagna tutt’intorno, la vasta solitudine in cui si trovava. Sul sentiero, in quota, non aveva incontrato nessuno sin da quella mattina. L’unico incontro, era stato con una vipera, che gli tagliò bruscamente la strada sotto il sole di mezzogiorno. Aveva ancora molto da imparare dalla montagna. La settimana prima, si era confrontato con la verticalità delle Dolomiti di Brenta. Su quelle pareti c’è molto da imparare. La verticalità è assoluta e non lascia tirare il fiato un minuto. Se non hai forza nelle braccia, non sali di un metro. Ci vuole, sul granito, meno forza e più intelligenza, più tecnica. Ci sono passaggi, su granito, che non puoi superare se non usi l’intelligenza dei pesi, se a volte non vai contro l’istinto che ti farebbe fare proprio il contrario di ciò che unicamente ti permetterebbe di superare il passaggio. Buttarsi in fuori, sentendo tutto il peso della gravità pronto a risucchiarti di sotto, a volte è l’unica maniera di aggirare una sporgenza, uno sperone, che se affrontassi come affronteresti un passaggio su calcare, resteresti bloccato. Si stava per addormentare. Il vento non cessava di soffiare. Scivolò nel sonno, cullato dalle raffiche ventose che facevano dondolare il piccolo riparo. Al risveglio, non sapeva quante ore avesse dormito, si trovò la luce del giorno in faccia. La neve che era caduta tutta la notte rifletteva i raggi solari, un bagno bianco di luce accecante che entrava dalla porta del bivacco. Il suo compagno era arrivato quella notte, aveva dormito, e si era già svegliato, ed ora scaldava del tè facendo sciogliere nel pentolino quella magnifica neve bianca.
«Ciao Umberto, ben arrivato.»
Umberto taceva e sorrideva.
Disse: «Sono arrivato alle due. Una tormenta di quelle pesanti. Gli altri saranno già ripartiti.»
«O magari per oggi ci aspettano.»
«Al limite ci ritroveremo tutti a valle.»
Bevvero il tè, sgranocchiando qualche biscotto ripieno di prugne secche. Tastò le scarpe in fondo al sacco a pelo: si erano asciugate.
«Dobbiamo partire, o la neve si scioglie e cammineremo nel pantano.»
Rifatti gli zaini, e caricati sulle spalle, si incamminarono lungo il ghiacciaio. La neve farinosa avvolgeva le scarpe, ma non bagnava i piedi. Il pendio era faticoso. I bastoncini da sci aiutavano a scaricare il peso degli zaini, e a fare presa sul pendio. Fecero un lungo tratto di ghiacciaio, silenziosamente. Poi si voltarono, e videro, sperduto nella conca sovrastata dalla piramide, il loro bivacco. Ci si affeziona a un bivacco in lamiera, e lasciarlo laggiù, tutto solo, ti sembra quasi di abbandonare un vecchio al suo destino. In una notte di tormenta, il bivacco ti accoglie come un amico. BIVACCO sulle Orobie
©, 2003
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