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Viviamo un’epoca priva di precedenti perché mistero e grandiose scoperte scientifiche sono in parallelo e la memoria sul piano scientifico viene molto prima dell’uomo.
Memoria, identità e solitudine
La memoria è custode del tempo perché in essa è contenuto e trattenuto, e nella memoria il tempo implode perché non occorre per ricordare, dal momento che il rimembrare a volte ci restituisce, in un fotogramma, l’intero prisma di eventi, contemporaneamente. La memoria non è affatto la duplicazione di come gli eventi si sono svolti e non è la restituzione di come abbiamo vissuto i vari momenti della vita: è proprio un atto creativo. Verlaine, ricordando un amore, diceva:” ricordo e ricordo le ore e gli incontri del migliore dei miei beni”. La memoria può essere un’inesorabile testimone. Esistono esseri umani che si scompaginano per non riuscire a tollerare ciò che la memoria riconsegna alla loro coscienza. Come sempre il sole ci illumina e ci ustiona. In questo caso il sole è dentro noi. E’ la nostra stessa natura. Eppure anche la nostra interiorità può essere inafferrabile, paradossalmente, però, può essere osservata e descritta. Ed è di queste descrizioni che abbiamo bisogno. Esistono intrecci tra l’esercizio della memoria e la dimensione dell’essere in compagnia con altri, con altre storie, con altre vite reali o possibili, quando noi miriamo a rispondere alla condanna, alla solitudine involontaria come male intimo per noi. Sono intrecci inevitabilmente complicati. La solitudine volontaria, il soliloquio è o può essere un bene proprio perché nelle circostanze fortunate sembra una sorta di colloquio con noi stessi come “altri”.
In tali circostanze proviamo l’esperienza del non essere soli o del non essere lasciati soli, avvalendoci della condivisione nel ricordo di altre vicende, di altre storie che dilatano ed allargano i confini del nostro “sé” connettendoci ad “altro” o “altri”. Il non essere soli ed il non essere lasciati soli è un tema importante. Il male per eccellenza per noi è la condanna alla sorte della solitudine involontaria perché questa implica la rapida sconnessione tra noi e altri e il mondo e alla fine tra noi e noi stessi nel tempo. L’avere o meno identità e saper rispondere alle domande su chi siamo, dipende dall’equilibrio instabile, provvisorio e tuttavia prezioso tra certezza o incertezza quanto riconoscimento ed essere accettati e identificati in certo modo. Da altri e nei casi limite più radicali da noi stessi. E’ facile osservare che queste due circostanze sono connesse tra loro e la condanna alla solitudine involontaria mette a repentaglio il capitale dei nostri riconoscimenti nel tempo ed in casi come questi ci perdiamo nel vortice degli eventi, divenendo stranieri a noi stessi e anche il mondo comune condiviso con altri diviene estraneo; una realtà condivisa di valori sfugge alla nostra presa abituale, evapora, ci esclude, ci scomunica e, come volevasi dimostrare, esiliandoci, ci inchioda alla sorte della solitudine
Ma nel rapporto tra solitudine ed identità vi è l’esercizio della memoria. Siamo uomini e donne per cui ricordare qualcosa o qualcuno o dimenticare possono essere oggetto di giudizio, di biasimo, di lode, di raccomandazione, di divieto, interdizione e preghiera. Tutte le civiltà basate sull’oralità, ossia la prescrittura, vedono un’enorme manovra di interdizioni, divieti e raccomandazioni e comandamenti quanto al ricordare o al dimenticare.
Questa intricata trama di giudizi positivi o negativi, di comandi ed esortazioni che accompagnano la memoria e l’oblio, introduce una vasta gamma di questioni. La complicazione è introdotta dal ruolo delle nostre scelte e responsabilità a proposito del ricordare o del dimenticare. Lo stato del ricordare o dimenticare qualcosa o qualcuno può essere per noi scopo importante, oggetto di preferenza scelta, o almeno in parte di responsabilità.
Rapporto tra memoria, identità e solitudine
Per introdurre all’argomento filosofico mi avvalgo di nuovo del riferimento ad una grande tradizione in cui l’esercizio memoriale gioca un ruolo eminente. Nella Tradizione ebraica l’assenza di memoria è un simbolo per eccellenza del disvalore o dell’antivalore. Il disvalore è il venir meno di ciò che vale. L’antivalore è qualcosa che blocca e distrugge ciò che vale. L’assenza di memoria suona come una minaccia alla persistenza nel tempo e nella durata della realtà. L’ebraismo ha sviluppato nei secoli una delle riflessioni più organiche del bisogno di memoria, non solo come tutela dell’autonomia culturale e dell’identità collettiva, ma proprio come essenza della struttura del mondo, quasi una forza cosmica che contrasta l’attenzione verso il dissolvimento insito nel divenire. Il luogo del non ricordo è dunque uno spazio torbido che si spinge al confine estremo della storia come un gorgo che rischia di attirare a sé la vicenda degli esseri umani. La shoah per esempio ha precipitato l’Europa alle soglie di questa fine ed è rimasta per decenni come una sorta di geografia o di topografia di ciò che non può essere giustificato e forse, in parte, neppure compreso. Ma come insegna il misticismo ebraico sottrarsi all’incombere della fine significa praticare con rigore l’esercizio memoriale, la pratica e la disciplina del ricordo, riconquistando un frammento di memoria dopo l’altro, fino a ricomporre l’immagine negata. L’ansia per la durata e la persistenza, che è propria dell’invito ebraico, all’esercizio memoriale, corrisponde all’incertezza quanto all’identità del tempo. Il riferimento alla tradizione ebraica permette di chiarire la vicenda dei rapporti intricati tra memoria e solitudine. L’esercizio memoriale connettendoci alla compagnia di “altri” e di “altro” permette che la condanna alla solitudine involontaria che per noi è male si converta nella condizione della solitudine volontaria che può essere bene. L’attività del ricordare è una sorta di colloquio in cui siamo impegnati in una conversazione interiore, individuale, come fossimo “altri” .La memoria ci connette alla compagnia di altri e di altre vicende, allarga i confini, tratteggia una diversa geografia del sé, genera piccole grandi metamorfosi di sé.
Il colloquio interiore produce un effetto metabletico perché siamo chiamati in causa da noi stessi sullo sfondo del ricordo delle nostre controparti passate o di altri o di altro. Così può accadere di riconoscere l’esperienza illuminante di una più ricca o semplicemente diversa comprensione di noi stessi su cui in qualche modo l’esercizio memoriale ha lasciato effetti. Questo è un esito possibile dell’esercizio rimemorativo. La sua più alta esemplificazione realizzata nel secolo passato resta la cattedrale della “Ricerca del tempo perduto” di Proust. L’esito possibile per cui vi è del bene nella nostra solitudine è quando essa risulta scelta e non imposta da altri o dalle circostanze o dagli eventi, ma quando è ricca di voci e di volti, nelle memorie su di noi e su altri: questo esito possibile può essere identificato rispetto a Proust in modi meno eroici o grandiosi di quanto non avvenga nell’impressionante ”monumento” proustiano. Vi è un possibile rapporto tra memoria e speranza come emozione, passione ed incertezza esistenziale.
[1] Liberamente tratto dall’intervento del prof Salvatore Veca al centro S. Fedele di MILANO- Convegno VIDAS-Aprile 2001
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