PIERO CHIARA IL CAPPOTTO DI ASTRAKAN IL SENTIMENTO DEL VIAGGIO Parigi provincia Luino La stanza del vescovo Ugo Tognazzi Johnny Dorelli
La provincia, microcosmo carico di umanità, di stereotipie, di tic nervosi, di bizzarre visioni a volte geniali della vita, è il luogo da cui fuggire, per poi tornare. Da cui fuggire alla ricerca di uno sbocco caricato di aspettative avventurose, iniziatiche a una vita più vera e intensa. Così, Piero Chiara ci racconta la provincia da cui fugge, e la Parigi a cui approda. Sono pagine magistrali di una letteratura ormai spenta. Vi serpeggia la malinconia di una gioia appena assaporata, poi persa, nei fumi di un passato che diventa mito. Mentre ci parla, Piero Chiara scrive già del passato, anche se in lui c’è l’attesa del futuro: le sue pagine sono subito Memoria, e per questo un po’ meste.
Andrebbe visto il film “Il cappotto di Astrakan”, interpretato da Johnny Dorelli, per comprendere al meglio la malinconia dei personaggi e delle vicende di Piero Chiara, la vita e il sentimento del viaggio. Certamente, questa letteratura si colloca in un’epoca particolare per l’Italia, quegli Anni ’70 che, volgendo al termine, vedono la pagina del terrorismo. Sembra attecchire, in quell’epoca, una letteratura che, malgrado i suoi guizzi di leggerezza, affondi il coltello nella piaga di una Nazione sofferente. Come non ricordare un non dissimile Carlo Castellaneta, con il suo “La Paloma”? O un commediante a tratti cupo e sferzante, come il veneziano Nantas Salvalaggio, con in suo Campiello Sommerso?
La Nazione soffre, eppure ci sono scrittori non dichiaratamente schierati, come quelli citati, che soffrono con lei. A testimoniare che questa non è una letteratura “leggera”, c’è il capolavoro di Piero Chiara, “La stanza del Vescovo”,
interpretato, sulla pellicola, da Ugo Tognazzi, che tutt’altro ci racconta di evasione – anche se così può sembrare – ma è un dramma incastonato in una farsa grottesca ed esistenziale, quasi a voler sottolineare e amplificare nell’evasione, nell’avventura, i dolori di un’Italia che faceva fatica a sollevarsi dagli orrori della guerra, ultimo atto di un dramma nazionale, dopo di che l’italiano medio, con le sue velleità di benessere e pace produttiva, si avviava alla riconquista di una certa stabilità. Se non che c’è il ’68, e poi il ’78, con questo Cappotto di Astrakan che – malgrado la sua instancabile leggerezza – è davvero malinconico.
©, 2011
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