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Le indagini del Commissario Ambrosio di Renato Olivieri
Da sempre giornalista, Renato Olivieri (Sanguinetto, 4 agosto 1925 – Milano, 8 febbraio 2013) è stato un direttore di periodici sino al momento in cui ha dato vita al suo celebre personaggio, il Commissario Ambrosio. Era il 1978, e da allora molte stagioni si sono alternate su Milano, la città in cui Olivieri si è trasferito dal suo Veneto natale, e ha fatto da sfondo – con le sue nebbie, o con le estati infuocate – alle inchieste di un Commissario che, in molti, hanno accolto come l’erede cisalpino di Maigret.
Tuttavia, se pensiamo a chi fu il suo interprete al Cinema (I giorni del commissario Ambrosio, 1988, di Sergio Corbucci, con Athina Cenci, Carla Gravina, Carlo Delle Piane) possiamo anche renderci conto di quanto l’Ambrosio interpretato da Ugo Tognazzi fosse distante dal Maigret di Gino Cervi e Jean Gabin, con la sua passione per le opere d’arte, la pittura e la letteratura come compagne di una vita fatta di malinconiche nebbie milanesi e ristorantini defilati, in cui la vita dell’investigatore a volte si mescolava a quella dell’uomo di tutti i giorni. Ambrosio era infatti sempre sul pezzo, anche mentre passeggiava magari in Via Solferino, non dimenticava di essere un tutore della Legge, e spesso le sue indagini prendevano le mosse da un indizio avuto in orario non prettamente lavorativo.
L’introduzione alla raccolta di racconti Ambrosio indaga, Rizzoli, 1988, ci introduce nel mondo e nella vita del personaggio Ambrosio, nelle sue passioni e nelle sue abitudini, con quella nota malinconica che solo Renato Olivieri sapeva dare alle sue righe, senza mai trascendere nel lugubre:
La prima indagine di questa raccolta comincia intorno a un Capodanno e l’ultima nella primavera di quindici mesi dopo, diciamo durante la settimana di Pasqua. Il commissario non è cambiato molto rispetto all’Ambrosio che abbiamo ritrovato nell’inchiesta, durata una stagione, tra via Fatebenefrateili e largo Richini, sulla morte di Virginia Braschi, apparentemente dovuta a cause naturali. Anche la sua relazione sentimentale con Emanuela, la donna che gli è compagna da anni e che continua ad abitare in via San Vincenzo, a Porta Genova, non è mutata;
naturalmente ha i suoi alti e bassi, come si usa dire, e ci sono tra loro quelle piccole ombre, quei momenti di turbamento, e anche di stanchezza, che sono comuni a tutte le coppie di questo mondo. Non siamo in grado di prevedere se, in futuro, Emanuela e Ambrosio si sposeranno, l’impressione è che, per il momento, le cose rimangano come sono, quasi in sospeso. La realtà è che Ambrosio ha timore del matrimonio: la sua esperienza con Francesca, la prima moglie, lo ha reso cauto, e poi il suo lavoro senza orari, abbastanza imprevedibile, gli consiglia di rimandare la decisione. Emanuela, dal canto suo, si direbbe consenziente a questa attesa, anche se – e abbiamo avuto occasione di intuirlo – le piacerebbe diventare la signora Ambrosio. C’è una cosa che il nostro commissario non riesce a dimenticare: ed è il tempo che passa, e sono i suoi anni; non è prudente – pensa – avere figli da una donna assai più giovane di lui, allevarli, curarli, seguirli come dovrebbe fare un padre appena decente, non un esperto di crimini, un cinquantenne privo di entusiasmi che frequenta di regola ospedali, obitori e camere di sicurezza. Nel suo minuscolo appartamento di via Solferino, in cui ha rinnovato la moquette, facendola tuttavia rimettere sempre di colore verde, si trova a proprio agio, anche se la presenza di Emanuela, soprattutto al sabato e alla domenica, gli fa pensare che lo spazio sia appena sufficiente, e sarebbe forse opportuna una camera in più per sistemare le librerie che ormai hanno invaso le pareti, impedendogli di appendere alcuni disegni e acquarelli di artisti a lui cari che invece è costretto a tenere nell’armadio accanto al letto, che poi, come sappiamo, è una turca di una piazza e mezza. Nel frattempo ha cambiato l’automobile: non possiede più la Golf verde, ma ha una Delta grigia e, sulla terrazza, oltre al glicine, alla forsythia e alla vite canadese c’è una camelia che fiorisce ai primi di marzo, e anche in febbraio, se la stagione non è troppo inclemente. Gliel’ha regalata Anita, un’amica dei vecchi tempi, che ha un negozio d’antiquariato a pochi passi dall’Accademia di Brera. Anita era stata indossatrice e la ritroverete nell’inchiesta intitolata Rapina di sera. Rispetto al passato Ambrosio ha modificato alcune sue abitudini: per esempio, ci sono dei ristoranti che non frequenta più, o in cui va di rado, altri – due o tre – che considera invece quasi «suoi», tanto è di casa; ha il suo tavolo, conoscono i suoi gusti piuttosto frugali, non insistono nel suggerirgli piatti a base di zampone, melanzane o brasato, sanno che beve con moderazione Tocai friulano, o Cabernet, oppure certe bottiglie di vini dai nomi che lo rallegrano come Dolceacqua e Barone Rosso, che regala a Natale agli amici. Ha tentato di smettere di fumare, senza riuscirci, è tuttora un fumatore pentito, e osserva i fumatori senza ritegno con una sorta di apprensione e di tenerezza ricordando un amico di gioventù, critico teatrale, che somigliava a Humphrey Bogart, e che se ne è andato, un inverno, per abuso di tabacco. Almeno così hanno sentenziato i medici. In compagnia di Emanuela, una domenica sì e una no, Ambrosio va in piazza Giovine Italia a pranzo da sua madre, la quale non dimostra gli anni che ha, quasi ottanta, e lo tratta sempre come se fosse il ragazzo di un tempo, e fosse ancora vivo suo padre, il giudice, con i suoi abiti occhio-di-pernice, il Borsalino grigio perla, i gemelli d’oro bianco, le cravatte amaranto a pallini. Esiste un libro che lo ha colpito, di un autore rumeno che vive a Parigi e che si chiama E. M. Cioran. Ambrosio non è ancora riuscito a sapere che cosa significhino quella E e quella M, ma sa che ha pubblicato alcuni saggi filosofici e, di lui, gli è piaciuta, oltre alla frase che apre questo libro di inchieste, la considerazione sulla Rivoluzione dell’89 che secondo Cioran fu provocata dagli abusi di una classe stanca di tutto, anche dei propri privilegi, ai quali si aggrappava per automatismo, senza passione né accanimento, giacché aveva un debole dichiarato per le idee di quelli che stavano per annientarla. La condiscendenza verso l’avversario è il segno distintivo della debolezza, cioè della tolleranza, la quale non è, in ultima analisi, che una civetteria d’agonizzanti. Che altro dire? Se lo chiede anche Ambrosio, che si considera – vedi caso – tollerante. Non è buffo? Quando, tempo fa, un produttore cinematografico gli ha mostrato la sceneggiatura di un film ispirato ad alcuni episodi della sua vita, anzi del suo lavoro di tutti i giorni, ne è rimasto lusingato e turbato. Lusingato perché, come tutti, ha qualche vanità (ed è comprensibile), turbato perché si è visto come la gente lo immagina, non com’è veramente, o come lui crede dì essere. Intanto i giorni passano, uno dietro l’altro, e passano le stagioni, e la nebbia si alterna al gelo, e la calura di luglio lascia il passo al dolce autunno, alle nuvole bianche sul campanile di San Marco che lui vede dalla terrazza, al di là del palazzo liberty del Corriere della Sera, e in via Solferino c’è odore di caldarroste e di benzina.
Il Commissario Ambrosio raccontato da Renato Olivieri è l’investigatore perfetto: umile quanto basta da anteporre le indagini alla carriera, sempre accompagnato dal dubbio, vicino alle persone e indulgente con le loro debolezze.
Nel modo in cui descrive il suo Commissario, poi, Olivieri dimostra di aver colto una verità fondamentale nelle investigazioni criminalistiche: il vero detective non distingue lavoro da vita privata e, quando indaga, impiega tutto il suo essere per risolvere il caso.
Posso dire che dall’apertura della mia prima agenzia investigativa Octopus ho sempre cercato dei “Commissari Ambrosio” nel selezionare i miei detective.
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