LA CITTA’ E LA RETE una visione tra letteratura e media
(2008)
Ultimamente, se penso e vivo la città, non posso evitare di andare con la mente alla raccolta di poesie “Elogio della vita associata” di Gian Luigi Falabrino (1973) (Kugluf), e al libro “A Milano non fa freddo” di Giuseppe Marotta. Sono due libri che Ci parlano, in epoche diverse, del valore della vita sociale (associata), della prossimità umana, della collaboratività tra persone. Tuttavia, da tale visione della metropoli, mi separa la cultura degli ultimi anni, decenni, trasmessami soprattutto dall’immagine nichilistica della pioggia in Blade Runner, una scena che Ci parla di tutt’altra città, rarefatta, così come i rapporti sociali al suo interno, secondo il moderno influsso dei media. Se anche con delle distanze e con notevoli punti di estraneità, la visione Cyber e No Future di matrice americana e Punk della metropoli non mi è del tutto inaccettabile.
Uomo e Macchina sono uniti ormai indissolubilmente dal computer, e di questa metafora, di questo parallelismo mente umana-mente artificiale ne è il simbolo il computer Hal 9000 in “Odissea 2001 nello Spazio”. Nato come protesi del cervello umano, il PC sta assumendo uno statuto sempre più umanoide, e sta determinando nuovi scenari di vita cittadina, se non altro nell’immaginazione, e nella rappresentazione dei media. Molti ancora lo demonizzano, soprattutto nella sua declinazione Internet. Ma non si può più, a mio avviso (ma come già ben altre menti hanno sottolineato), considerare l’uomo disgiunto dalla macchina. Già negli Anni ’60, la mente fervida e anticipatrice di Gian Luigi Falabrino l’aveva compreso, confermando Falabrino come fautore di un illuminismo attento e moderatamente ottimista rispetto ai movimenti economico-sociali, che prevedono l’utilizzo dell’intellettuale quale “tecnico” (mi si permetta la licenza) interfacciato fra cultura e società. Qui, potentemente, si inserisce il ruolo del Falabrino pubblicitario, dell’intellettuale “integrato” che tanta polemica, e accuse, raccoglierà su di sé – negli Anni ’70 – dai militanti di un nichilismo di Sinistra che avrebbe poi mostrato il suo fallimentare modismo. Falabrino, inoltre, mette esplicitamente in guardia a più riprese contro il disprezzo della Società di Massa e dei media (Intellettuali e miti dell’evasione, Diogene, 3/1964), (Le arti e l’industria, Diogene, 2/1963), avvicinandosi con fiducia al progresso industriale, con l’apertura mentale dell’artista e dell’uomo di cultura disposto a sperimentare nuove vie, senza preclusioni ideologiche, alla crescita della Società. Si tratta di un’apertura di tipo eclettico, che affiora e si motiva in Falabrino all’alba della Società Mediatica, vista come possibilità “illuministica, di gestione delle nuove strumentazioni dei media per fare cultura e per superare la congenita separatezza dell’intellettuale italiano” (Stefano Verdino).
Separatezza che anch’io avvertivo nell’intellettuale novecentesco, erede della metafisica e della prosa d’arte, e che mi fece orientare verso la letteratura d’oltre Oceano, alla ricerca di un pragmatismo più congeniale alla mia ricerca di un linguaggio più vicino alla vita, di scenari umani fatti anche e soprattutto di vita concreta, di persone, di campi da baseball (il calcio in America non è popolare), di corse di cavalli, di prostitute e impiegati, di gente qualunque e anche mediocre alle prese con la faticosa vita di tutti i giorni. Scoprii la poesia di Walt Whitman, l’anticonformismo e il pionierismo di Melville e Thoreau, il senso del tragico – anche se talora declinato in comico – di Twain. E via via mi addentrai nel ‘900 e scoprii Ford Madox Ford e – in cascata – Sherwood Anderson, Hemingway, Steinbeck, Bukowski.
Di Falabrino non posso dire di avere la stessa impronta risorgimentale e mazziniana, non posso dire di condividere con questo Maestro la stessa base culturale prevalentemente orientata all’etica e all’impegno politico, ma del suo amore per la prassi posso dire di aver compreso, o di star comprendendo il messaggio grazie all’insegnamento avuto dai miei Maestri americani. Non sarei mai riuscito ad avvicinarmi al suo pensiero, se non avessi prima fatto letteralmente un bagno d’umanità nelle più materiali e a volte sordide storie AmeriKane. Si è trattato di un lungo cammino, consistente nel ricollegare la natura dei Nostri pensieri, dei Nostri sentimenti alla loro matrice materiale, sociale, storica, ambientale, di mettere tra parentesi il primato della metafisica, e di porre in primo piano – se non la Storia – almeno per me, la Cronaca. Infatti, prima di allora, mi stavo pericolosamente sempre più allontanando, scindendo dalla vita e dai sentimenti, dalle mie stesse pulsioni, e addentrando in un tragico luogo di ombre metafisiche.
Afflato popolare, ma un “no” netto verso qualsiasi atteggiamento “populista”, il sentirsi atomo tra tanti atomi, soldato semplice di un immenso, cosmico, disperso esercito che non cerca la sublimità, né ha tante possibilità di sublimare, se non nell’atto umile, quotidiano, partecipativo della prassi, in una “opacità urbana” che ha in sé il fascino della “vita associata”. Un mondo, quello della città, non di eroi apollinei, di estetici inseguitori della gloria e del bene personali, ma di “etici” (nel senso kierkegaardiano del termine) individui impegnati nel costruire la civiltà. Questo è, a grandi linee, il senso della raccolta di poesie “Elogio della vita associata”, una tappa nella formazione di Falabrino in cui egli sottolinea una volta di più la sua avversione per le fughe – idealistiche, rinunciatarie, nostalgiche (anche di tanti suoi conterranei liguri rimasti ancorati a una Genova mercantile che non era riuscita a cogliere la scommessa dell’industrialismo degli Anni ’60), nell’Arcadia poetica, nel mito agreste della Natura, che Falabrino ha sempre – con una certa dose di spavento personale – considerato come “l’ombra dell’agire umano e come il suo avversario costante. In altri termini: non poteva darsi una civilitas che prendesse forma fuori dalla civitas, né una virtù morale che non fosse anzitutto urbanitas” (Roberto Giannoni).
“Avvenne così che il mondo fisico e biologico fosse visto con gli occhi di Leopardi, o con quelli dei borghesi anglosassoni, lettori di Malthus e di Ricardo (…)” (Roberto Giannoni).
La scommessa dell’industrialismo rappresentava per Falabrino quella della possibilità di avviare, per l’Essere Umano, il processo di uscita dalla natura, di affrancamento da una forma di vitalità irriflessa che gli precludeva la coscienza di sé, un processo che portava all’agire storico. Dalla fondazione di “Diogene” (1959) in poi, avvenne in Falabrino un processo di mutazione che velocemente, con il suo trasferimento a Milano, gli diede una diversa percezione della sua collocazione all’interno della Società. E al tempo stesso, lo avvicinò al pensiero di “Civiltà delle macchine”, “la rivista dell’Iri, diretta da Leonardo Sinisgalli, poeta-ingegnere” (Roberto Giannoni), oltre a fargli vivere creativamente l’influenza del pensiero di Adriano Olivetti e degli intellettuali che gli facevano corona. “Scrivendo nell’aprile ’60 per la morte di Adriano Olivetti (Adriano Olivetti e il Movimento Comunità), Falabrino ricorderà soprattutto la stretta dipendenza esistente tra le idee elaborate a Ivrea e le tesi espresse a suo tempo da Maritain e da Mounier: ma darà atto dell’importanza spettante a quell’esperimento e in un successivo intervento (Umanesimo e tecnica, del giugno 1960) porrà l’industriale piemontese accanto a Simone Weil, ai preti-operai, agli architetti e urbanisti inglesi impegnati a costruire un habitat per la classe operaia” (Roberto Giannoni).
L’uscita dal ghetto intellettuale dovrebbe tradursi in una interiorizzazione dell’Oggetto – Uomo, ma non in facile populismo o impegno modistico radical chic. L’uomo, o meglio, l’oggetto – in termini psicoanalitici – altro non è che il valore del Nostro mondo affettivo e simbolico. L’interiorizzazione dell’Oggetto – Uomo dovrebbe consistere in un’appropriazione del dato umano sulla base di un sentimento di condivisione, di compassione e empatia. Si tratta della cosiddetta capacità d’amare, capacità di simbolizzare e progettare. In tal senso, capacità di essere artisti, anche – se non soprattutto – in senso lato. Dico soprattutto, in quanto non è concepibile un mondo di soli pittori, scultori e poeti e scrittori, ma è auspicabile, invece, un mondo di operai, impiegati, dirigenti, politici, negozianti e taxisti e idraulici capaci di simbolizzare, capaci di amare, di patire-con, di ascoltare: questa sarebbe la città ideale, l’utopia massima, l’Eden ritrovato, la Civitas che si traduce propriamente in Civilitas. La voce dello scrittore statunitense Sinclair Lewis, premio Nobel per la letteratura nel 1930, nel romanzo “Babbitt”, è stata in grado di adeguarsi agli umori mediocri e effimeri del borghese medio americano, in uno sforzo di identificazione non facile. La città narrata da Sinclair Lewis, malgrado sia abbastanza persecutoria, non è apocalittica (si veda, per questo, “Il giorno della Locusta”, di Nathanael West), ma è, al contrario, pur nella miseria concreta, nella noia dilagante degli agenti di commercio, scenario molto vicino alle città della commedia brillante americana (“Ultima Notizia”, con Jack Lemmon e Walter Matthau, ad esempio); e non è nemmeno rarefatta e stilizzata, gelida (“La donna che visse due volte”, di Alfred Hitchcock). La città di Lewis è una città fortemente connotata eticamente, dove le singole particelle (atomi, nel senso di Falabrino), partecipano di una comune, estenuante laboriosità. Potremmo dire – anche se con le dovute approssimazioni – anticipatoria della città sommersa e vitale di “Città della notte” di John Rechy, una sinfonia di voci, di volti, di destini, abilmente miscelati in un mix di umana disperazione, di promiscua e vana ricerca della felicità. Ma qui le associazioni iniziano a premere nella mia mente, e mi sale dal profondo del mio passato giovanile il ricordo di un altro scrittore statunitense, Thornton Wilder, che, come pochi altri, seppe narrare la città, ovvero “La piccola città” (“Our Town”), secondo il tentativo di dare valore supremo a tutti i Nostri piccoli atti quotidiani, le Nostre speranze e le Nostre dimenticanze: quante volte nella Nostra vita abbiamo sfregato un fiammifero? Oppure, quante volte abbiamo detto “ti amo”? Se ci pensiamo, il conto non potrebbe che portare a una somma limitata, finita, così come finite, limitate, tragicamente limitate, sono le Nostre esistenze. Così, la città diviene luogo della finitezza, e di una – irrealizzabile, sul piano terreno – aspirazione all’eternità.
Aspirazione – irrazionale – alla felicità, tramite la scommessa col fato, che nell’animo del piccoloborghese – mai come oggigiorno – si traduce nel costante azzardo tramite le lotterie e i gratta e vinci. Non c’è niente di più straziante che vedere l’espressione di attesa dello scommettitore, mentre con una monetina asporta la pellicola argentata che cela la combinazione, il più delle volte non vincente. In quello sguardo c’è tutta la miseria della finitezza terrena, la limitatezza urbana – intesa come limitatezza del raggio d’azione della Nostra creatività – che cerca di adescare una divinità cieca al fine di ricevere un dono – immaginato come meritato – dal cielo. Nel rito della scommessa con le lotterie, si cela l’aspirazione all’eternità del popolo piccoloborghese, alle prese con le bollette, le rate del mutuo, la spesa quotidiana, che non sempre lasciano molto margine nel conto in banca.
Ma la limitatezza, in verità, non ci limita, anzi, ci connota proprio come esseri umani. Proprio nella dimensione della città, limitante il Nostro raggio d’azione, possiamo cogliere il Nostro destino, la Nostra possibilità di agire e costruire all’interno di un orizzonte definito. Nello stato di infinità del Cosmo, l’orientamento diventa, oltre che difficile, inutile. E’ nella limitatezza che ci si può orientare, e quindi incamminare verso un obiettivo, che diviene concreto e realizzabile all’interno di una concezione etica dell’esistenza.
La città – nel caso di certe letterature – diventa invece espressione di un infinito inquietante, di un estraniamento e di una totale inefficacia dell’azione del singolo, in quanto il singolo perde ogni connotazione umana e etica, e diviene umanoide, diviene propaggine di una macchina che l’avrebbe inglobato e proiettato in una dimensione a-spaziale e a-temporale fatta di fibre ottiche cablate in sterminate reti neuronali, dove il parallelismo mente-macchina si fa immediato e intuitivo. La Macchina prevale sull’Uomo e, non intesa più come semplice strumento, diviene un essere autonomo e distaccato, capace di rivoltarsi al suo creatore. E’ la visione claustrofobia e paranoidea del Cyber Punk, avviata dai primi scrittori di fantascienza e poi resa celebre e consolidata quale epistemologia da Philip K. Dick, e da tutti i suoi discendenti Cyber e Avant – Pop. Una concezione e visione della macchina molto lontana, se non opposta, a quella illuministica e fiduciosa già citata in Gian Luigi Falabrino, cultore – negli Anni ’60 – dei Media quali diffusori di Civiltà e di Democrazia. Al contrario, nel genere Avant – Pop, troviamo civiltà dove la macchina avrebbe favorito scenari di totalitarismo, di imbarbarimento e completo nichilismo, come in “Occhio nel Cielo” di Philip K. Dick.
La rarefazione dei processi interpersonali, la desertificazione delle relazioni, appartengono alla psicosi. Così come quando lo spazio si svuota di oggetti. Rappresentazione letteraria della psicosi, intesa anche come anomia e mancanza di principi etici, la ritroviamo nella letteratura di Frontiera americana, antesignana – a mio avviso – della rarefazione e dell’anomia Avant – Pop. Nel regno incontrastato della Natura, intesa anche come regno di rapporti interpersonali arcaici e distruttivi – non necessariamente collocati in un ambiente naturale, ma anche in città, nel segno del noir e del pulp, o di una specifica letteratura di strada come in “La Giungla di Asfalto” di William R. Burnett – ritroviamo la brutalità irriflessa e primordiale del regno animale, secondo un darwinismo sociale, uno spirito di adattamento alle regole della sopravvivenza – economica, criminale, sociale – che fanno della Frontiera la Nostra memoria filogenetica. Nel passaggio dallo stato di natura allo stato sociale, l’uomo compie un balzo evolutivo. La Frontiera rappresenta il Nostro passato, il regno del rimosso (psicoanalitico) e della psicosi, ovvero, della Natura. Memoria arcaica e sottocorticale – per esprimerci in termini neuropsicologici – che rimanda a una emozionalità profonda, forse sollecitabile anche attraverso sonorità musicali come quella del Country Western, o delle musiche afro-caraibiche. La Città/Frontiera diviene foresta, diventa giungla selvaggia e misteriosa, nella totale perdita dei processi etici e sociali, in “The Believers” (“I credenti del male”), un film di John Schlesinger, con Martin Sheen, del 1987. In questa pellicola, la gotica New York si trasforma o – forse – rivela la sua vera natura di roccaforte di una wilderness urbana rintracciabile nel tradizionale culto dell’orrorifico quale esempio di ritorno – qui reso in maniera davvero inquietante – allo stato naturale. Il regista, infatti, non esita a introdurre riti woodoo a base di serpentelli nuotanti in bacinelle di plastica ad opera di Santeros caraibici nascosti nei più bui recessi cittadini, al fine di indurre la morte nei destinatari di queste magie, anch’essi spersi nella immensa giungla metropolitana.
L’estensione, la dispersione urbana, con la conseguente rarefazione dei rapporti sociali, può condurre facilmente a una chiusura in se stessi pericolosa e autistica. Il progresso tecnologico sembra, negli ultimi vent’anni, aver assecondato il bisogno dell’individuo di arroccarsi dietro sovrastrutture multimediali che lo proteggano e lo separino dagli altri. Così facendo, l’Uomo ha sviluppato un nuovo concetto di socialità. Lo spazio pubblico è trasmigrato nella Rete, in un luogo che è soprattutto un luogo virtuale della mente, un costrutto intellettuale, più che un vero spazio fisico, o meglio, una Metafora dell’Umano. Il grande passaggio all’informale degli Anni’50, è stato a sua volta superato nel passaggio al digitale degli Anni’90.
Città ideale dei pittori rinascimentali, reticolo urbano dell’età industriale, metropoli spersonalizzata dell’era post industriale. Un filo rosso unisce queste tre rappresentazioni della città, ovvero, la concezione dell’individuo che si aggira in esse. Nelle città ideali del ‘500 non si vedono, in verità, persone. Sono rappresentazioni vuote, senza vita, scenografie cartacee, ideali, forse, proprio in quanto disabitate! L’Uomo, questo “demone” animato dal “male” della conoscenza faustiana, avrebbe dunque il potere di deteriorare tutto quanto calpesta nel suo cammino senza fine? L’uomo, questo meschino essere alchemico, avrebbe trovato una ulteriore via di espansione al mercato: la sua stessa mente. Finite di colonizzare terre e vallate, non gli rimaneva che trarre profitto dall’ultima frontiera del mercificabile: il suo mondo interiore, la psiche, lo spirito. Avrebbe dunque rivolto lo sguardo dentro di sé, trovando propriamente quello che potremmo chiamare l’”infinito”, ovvero, una miniera senza fine da sfruttare a fini di mercato, fatta di bisogni, che vengono generati da accorti psicologi di mercato, Agenti che vendono spazi pubblicitari nella zona grigia e infinita chiamata “anima”. Qui c’è spazio per tutti, ogni bisogno può essere creato appositamente per espandere una certa parte di mercato, per colonizzare una quota parte di Anima con oggetti di consumo anche inutili, basta individuare un “bisogno possibile”. La scala dei bisogni può così aprirsi all’infinito, tanto quanto è infinito lo spirito capace di generare bisogni per lo più fittizi, falsi bisogni, falsi Io, false vite. Il capitalismo ha conquistato l’ultima frontiera della propria espansione: la stessa Anima dell’essere umano. Divenuta terreno di battaglia e di sperimentazione delle nuove vie del marketing, essendo anche stata piegata l’informazione a questo scopo – comprando le idee, comprando le menti degli informatori, rendendo facilmente tutti degli informatori tramite le nuove tecnologie digitali che, con la tecnica del copia-incolla, non fanno altro che clonare all’infinito la stessa idea partita, chissà come e chissà quando, da una sorta di Mente Centrale che decide dell’informazione – l’anima è costretta a cibarsi di idee manipolatorie, che incidono direttamente sui suoi bisogni, in maniera profonda e indelebile. La tecnologia digitale è capace di generare cambiamenti immutabili e pericolosi, se non controllati. E’ capace di generare una “mente parallela” nelle persone, che le guiderebbe inconsciamente in scelte e comportamenti. Tante menti parallele contribuiscono a generare la Mente Centrale, una mente sovrapersonale e sovraindividuale, espressione di un pensiero comune e spersonalizzato. Il digitale ci ha spersonalizzati.
Trasmigrata nella Rete, la città si sarebbe spersonalizzata e svuotata. Sarebbe tornata alla stilizzata rappresentazione priva di umanità delle città ideali del Rinascimento, deserte e senza uomini. Una vibrazione di impulsi elettrici invisibili sarebbe l’unico indizio di umanità all’interno di questa digitale rappresentazione della città post industriale, espressione del capitalismo apocalittico.
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