Carteggio tra Edoardo Sanguineti e Enrico Filippini
La foto ritrae quelli che sono due amici, Edoardo Sanguineti e, a destra, Enrico Filippini nel 1964 (foto Archivio Enrico Filippini, Biblioteca cantonale di Locarno). Si conobbero, più o meno trentenni, nell’ottobre 1963 al convegno di Palermo per costituire il Gruppo 63.
Le differenze sul piano biografico ed esistenziale che c’erano tra i due, non impedirono loro di trovarsi su di un terreno comune, quello che, allora, si chiamava impegno civile, a difesa della letteratura, per la quale entrambi – con la massificazione dei prodotti culturali che si stava avviando in quegli anni – vedevano profilarsi il pericolo di una sempre più diffusa omologazione degli stili e soprattutto dei contenuti.
Il carteggio tra i due, (Cosa capita nel mondo, Mimesis, a cura di Marino Fuchs) sembra uscito da un’era remota, ma si tratta di lettere scritte tra il 1963 e il 1977. Sanguineti, al tempo, è già padre di tre figli, ha ottenuto la libera docenza universitaria dopo essere stato a Torino assistente di Getto, ha pubblicato in volume la tesi su Dante; è autore di una raccolta di poesie intitolata Laborintus; è collaboratore della rivista «Il Verri» diretta da Luciano Anceschi; è in amicizia con poeti, artisti e musicisti (tra questi Enrico Baj, Luciano Berio, Luigi Nono) e nel 1961 ha partecipato con suoi testi all’antologia dei Novissimi con prefazione di Alfredo Giuliani.
Lo si capisce, il suo è un background di amicizie e letture che tracciano una fisionomia molto in movimento, aperta e dinamica e ambiziosa, diversa da quella di Enrico Filippini, più ponderato, proveniente dalle montagne svizzere della Valmaggia, abituato alla lentezza, al passo del montanaro e alle sue infinite resistenze, alle sue riservatezze: infatti anche i suoi studi parlano di un diverso rigore se non grigiore, ha studiato a Milano, Berlino e Monaco, con Enzo Paci è uno dei protagonisti della riscoperta della fenomenologia, frequenta le avanguardie tedesche, dal 1959 è consulente letterario della Feltrinelli, per cui ha già tradotto opere di Husserl, Dürrenmatt, Frisch, Uwe Johnson.
Ma le strade di Filippini e Sanguineti si erano incrociate nel 1962 sul «Menabò», la rivista di Vittorini e Calvino, che nel numero 5 aveva ospitato testi della neoavanguardia, tra cui i loro.
Il racconto Settembre era stato apprezzato da Sanguineti, il quale lo sentiva in qualche modo affine al suo primo romanzo, Capriccio italiano, che metteva in gioco la capacità, o meglio l’incapacità, dello scrittore di portare a termine la propria opera e il valore ideologico insito nel linguaggio.
Comprendiamo, sulla base di questo assunto, il tono polemico verso la letteratura di cassetta, verso il piacere edonistico delle letture disimpegnate, che prevedevano, e prevedono tutt’oggi, una prolificità e una capacità esecutiva autorali simili a quella di un incosciente lavoratore a stipendio fisso presso una qualsiasi industria produttiva occidentale. E si era negli anni’60, quelli appunto del boom economico, nei quali altre voci consimili si erano levate contro l’establishment ideologico-culturale, come quella dell’anarchico Luciano Bianciardi, firma storicamente legata alla casa editrice Feltrinelli (Il lavoro culturale).
A Capriccio italiano, che Filippini considera il più importante romanzo contemporaneo, segue Triperuno, un testo poetico di Sanguineti uscito da Feltrinelli e dato in traduzione tedesca a Hans Magnus Enzensberger. I riferimenti dei due amici restano quelli della grande critica di quegli anni, Marx, Lukács, Barthes, e Filippini offre la sua disponibilità per un commento sulla base di uno scambio epistolare con Sanguineti. Il destino dello scrittore montanaro, ha un epilogo malinconico quando, nel 1970, concorre per la cattedra di italianistica al Politecnico di Zurigo ma viene escluso per ragioni politiche. Vira verso il giornalismo, nel quale si afferma come una delle più grande firme contemporanee, ma resta uno scrittore senza libro, anche se lo si ricorda ancora oggi per racconti pregevolissimi come L’ultimo viaggio, scritto negli ultimi mesi di vita. Nell’87, un anno prima di morire, Filippini dichiarava la sua nostalgia per quella funzione di verità della letteratura in cui lui, come Edoardo, aveva creduto. Ma avvertiva: «la nostalgia non è un sentimento crepuscolare o malinconioso, ma un sentimento felice, vitale, positivo».
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