Al momento stai visualizzando ACQUA SOGNO E MORTE TRA CA’ LABIA E SCANO BOA UNA STORIA DI FANTASMI POLESANI
Un cavallo travolto dalla acque del Po che invasero il Polesine, 70 anni fa

ACQUA SOGNO E MORTE TRA CA’ LABIA E SCANO BOA UNA STORIA DI FANTASMI POLESANI

ACQUA SOGNO E MORTE TRA CA’ LABIA E SCANO BOA UNA STORIA DI FANTASMI POLESANI
Ho dato un titolo troppo lungo per le miopi esigenze di indicizzazione in word press, ma ancora troppo corto per le esigenze interpretative di un libro, anzi, libricino, come Sagra Ca’ Labia di Francesco Permunian.  
Un libro che, oltre che essere libricino, non è per nulla pretenzioso, a fronte invece del possente contesto storico-culturale in cui si inserisce, lo scenario letterario che ne fa da sfondo: si va da Antologia di Spoon River, ai romanzi di Gian Antonio Cibotto, a quella grande cultura veneta del secondo ‘900 di cui Giovanni Comisso fu indiscusso padrino, cantore e cronista.
Storia di morte, fantasmi, ossessioni e acqua. A proposito: nella introduzione, Rolando Damiani giustamente annota quanto scrisse Cioran: “Io non ho idee, ho solo ossessioni; le idee può averle chiunque”. La razionalità è molto ben distribuita nella popolazione, chi ne beneficia, però, non ha il dono del genio. E il genio è spesso, anzi, di regola avvinghiato romanticamente al dolore, o alla fascinazione, o predestinazione, della morte. Non che qualcuno di noi non sia destinato a morire, ma, solo i geni, vivono la morte in ogni gesto, in ogni respiro, se ne sentono assediati, e ossessionati. Cosa ci sarà di geniale, direte voi, in un sentimento simile. Si vive male, così. Ma chi ha mai detto, che i geni vivano bene?
No, non vivono bene, tutt’altro.
Francesco Permunian, vive così, avvolto amnioticamente nei suoi sogni, che affondano nella sua infanzia passata nel Polesine toccato dalla devastante alluvione del 1951, durante la quale scampò miracolosamente la morte, “acquisendo una fama talmente equivoca e sinistra da essere considerato il principale confidente della morte in circolazione. E quindi dotato di non so quali poteri speciali che (lo – ndr) trasformarono in un oggetto di devozione da parte di numerosi postulanti, i quali (lo – ndr) imploravano di ritornare ancora nel mondo dei defunti per portare un messaggio ai loro cari (…) che assillavano (sua – ndr) madre con domande (…) del tipo: “Che sensazione si prova, signora, ad avere un figlio che ha messo un piede nell’aldilà? Di che materiale sono fatti i confini tra la vita e la morte?”
Permunian però con la Morte ci scherza amabilmente, ci gioca a bocce, o a carte, e ci beve sopra, da buon polesano, abitatore di quella desolata Waste Land dove “Estati interminabili e roventi, seguite da inverni umidi e nebbiosi. Afa e solitudine, sia d’estate che d’inverno. E poi, a primavera, venti che provenivano dal mare e sollevavano enormi polveroni sopra una campagna attraversata da un groviglio inestricabile di strade e di canali”, lo facevano sentire in prigione, una prigione da cui riusciva a scappare solo arrampicandosi sugli alberi, stando “ore e ore di vedetta, a scrutare l’orizzonte dove in lontananza s’intravedeva il profilo dei colli Euganei; oppure (appostato – ndr) ai bordi della provinciale, l’unica strada asfaltata, a contare le rare automobili che vi transitavano fantasticando di fuggire dal (suo – ndr) carcere”. C’è qualche analogia col Deserto dei Tartari, del grande scrittore veneto Dino Buzzati, allegoria di una lunga attesa che germinò sulle scrivanie di Cronaca Nera dove Dino vedeva languire e sfilacciarsi nella noia le poco avventurose vite dei suoi colleghi giornalisti.

 

 

Con una sola differenza: Francesco Permunian non ha mai cercato l’avventura, non si è mai ribellato a quella orizzontale ossessione della pianura polesana, non ha mai voluto troppo alzare la testa, ha sempre obbedito alla sconfitta, trionfando infine su di essa. Certe ossessioni, certi orizzonti, certe solitudini, difatti, non le puoi sconfiggere. Non ti resta altra salvezza che divenire loro amico, andarci a letto avvinghiato come un amante, farti da loro succhiare il collo come da un vampiro, e diventare vampiro, fantasma, tu stesso: immortale.
“E’ inutile cercare sulla carta geografica le località nominate in questo libro (1) (o tentare gratuite identificazioni dei personaggi). L’esattezza geografica non è che una illusione. Il Delta Padano, per esempio, non esiste. Lo stesso dicasi, a maggior ragione, per Scano Boa. Io lo so, ci sono vissuto”, avverte Gian Antonio Cibotto. 
Note:
1: Gian Antonio Cibotto – Scano Boa – Bompiani, 1988

 

 

©, 2022

questa pagina contiene alcuni collegamenti esterni il cui contenuto informazioneecultura.it ha verificato solo al momento del loro inserimento; informazioneecultura.it non garantisce in alcun modo sulla qualità di tali collegamenti, qualora il loro contenuto fosse modificato in seguito.

Lascia un commento