DALLA TERRA ALLO SPAZIO la genesi della crisi dell’uomo medio
Dall’assalto al cielo post bellico, alla crisi del maschio contemporaneo, dell’uomo medio, ci stanno in mezzo 70 anni di storia occidentale segnati dall’ascesa della tecnologia e dal conseguente inaridimento del sostrato economico, sociale, psicologico in una Società interconnessa e sempre meno capace di comunicare, amare, comprendere, effetto di una spinta capitalistica capace di creare competitività, da una parte, disoccupazione ed emarginazione, dall’altra, come due facce della stessa medaglia.
La corsa allo Spazio inaugurata in piena Guerra Fredda ha segnato una svolta epocale nel rapporto dell’Uomo col Pianeta Terra. L’habitat dell’Uomo, da quello naturale rappresentato dal nostro pianeta, si stava prospetticamente spostando verso l’alto, verso il cielo spaziale. La Terra rappresenta la quintessenza della condizione umana (Arendt) e il suo habitat permette all’Uomo di muoversi e respirare senza artificio. Ma una nuova pulsione di conquista stava spingendo gli uomini ad esplorare lo Spazio, col fine di trovare una possibilità di colonizzazione nel regno sconosciuto del cosmo, primo passo verso la liberazione degli uomini dalla prigione terrestre (Arendt).
La prospettiva della colonizzazione dello spazio era stata sino alla Guerra Fredda appannaggio della fantascienza, un ambito letterario a cui finora è stata data poca attenzione, ma che veicola i grandi sentimenti di massa, dell’uomo medio. Secondo il Cristianesimo la Terra è una valle di lacrime, e per la filosofia il corpo è la prigione della mente o dell’Anima, ma nessuno, prima degli Anni’50 e della corsa allo spazio, aveva mai considerato la Terra come prigione per i corpi degli uomini, né nessuno, prima di allora, aveva mai manifestato il desiderio di andare sino alla luna. La Arendt si domanda: sarebbe questo l’esito dell’emancipazione e della secolarizzazione dell’età moderna, iniziate con l’abbandono, non necessariamente di Dio, ma di un dio che era il Padre celeste: il ripudio sempre più fatidico di una Terra che era la Madre di tutte le creature viventi sotto il cielo? (Hannah Arendt – Vita Activa).
Il nichilistico ripudio di una trascendenza, e l’esaltazione – all’opposto – di una metafisica basata sulla materia, sul quantificabile e sul meccanico, ha dato avvio, in età illuminista, alla ricerca su quell’artificio del mondo umano che separa l’esistenza umana dall’ambiente meramente animale, ma la vita è estranea a questo mondo artificiale, e attraverso di essa l’uomo rimane in relazione con gli altri organismi viventi. Molti sforzi scientifici sono stati diretti in tempi recenti a cercare di rendere “artificiale” anche la vita, a recidere l’ultimo legame per cui l’uomo rientra ancora tra i figli della natura. E’ lo stesso desiderio di evadere dalla prigione della terra che si rivela nel tentativo di creare la vita in una provetta, nel desiderio di mescolare “sotto il microscopio il plasma germinale congelato di persone di comprovato valore per produrre esseri umani superiori” e “modificarne la grandezza, forma e funzione”; io credo anche che un desiderio di sfuggire alla condizione umana si nasconda nella speranza di protrarre la durata della vita umana al di là del limite dei cento anni (Hannah Arendt – Vita Activa).
Sembrano parole tratte dal mito faustiano, secondo una rinuncia al limite ontologico della natura umana, e il desiderio di accedere con la tecnica a un mondo preconizzato come migliore e di inesauribile felicità. Per certi versi, oggi, molti si stanno illudendo il tal senso, cadendo nelle seduzioni del metaverso et similia.
Spingendosi troppo fuori di sé, l’Essere Umano ha così perso il contatto col proprio Sé. Ha perso il contatto con la Madre Terra, con l’appercezione magico simbolica che, nelle età precedenti, lo univa al Cosmo, da cui traeva la propria identità e il senso del proprio agire, del proprio destino. Quello che ne consegue, è solitudine, spaesamento: angoscia, gettatezza (Sartre).
Un mondo che si prospetta senza più limiti, è capace di generare in chi lo abita il sentimento della propria vittoria sulla Morte, un sentimento che genera anche il bisogno di rifugiarsi nel materiale e nell’individuale, a danno dello spirituale e del collettivo. Questo è il risultato delle teorie meccanicistiche e atomistiche, che vedono nella collettività la risultante dell’attività di una moltitudine di atomi disuniti e in caotico movimento. Se la trascendenza dava in passato ordine sociale e verticalità gerarchica, l’atomismo è incline a una visione della società pervasa da entropia, caos, mancanza di gerarchie. Quest’ultima visione è più che mai aderente agli scopi impliciti dell’agire tecnico-scientifico, alleato del mondo capitalistico.
Viviamo così di fatto in una dimensione governata dalle macchine. Nella quale anche Noi siamo macchine o atomi, governati da Leggi meccanicistiche – oggi diremmo algoritmi. Negli Anni subito successivi alla Seconda Guerra Mondiale, negli Stati Uniti i Padri – reduci del conflitto bellico – indicavano ai figli il Cielo: lassù, si estenderà presto il dominio dell’Uomo. Insegnavano ai giovani il valore della forza e del coraggio appresi in guerra. Il valore della famiglia e l’amore per il proprio paese. Ma presto, di questi reduci della guerra, la società americana non seppe più cosa farsene. Divennero un esercito di disoccupati, che persero il reddito e il ruolo sociale. L’ideale per cui avevano tanto combattuto, li aveva traditi. L’uomo medio stava andando incontro alla propria crisi.
Si sarebbero ritrovati in una società competitiva, senza più la casa, la macchina, l’amore della propria famiglia, si sarebbero ritrovati a non contare più nulla, e a guardare quel cielo in cui avevano creduto di poter riporre il proprio ideale, come una cosa ostile e lontana.
Per la società americana, essere uomini significa stare al comando, avere la situazione sotto controllo. Condurre il gioco. Perdere questo ruolo, nella società americana, equivale a diventare dei paria.
Vi era qualcosa di quasi assurdo in quegli uomini che lottavano, settimana dopo settimana, per riconoscersi come dominatori quando erano così chiaramente dominati, tagliati fuori dal mondo (Susan Faludi – Bastonati!).
Privati della loro utilità sociale, questi paria, questi disoccupati, si riunivano in gruppi dominati dall’orgoglio maschile. L’esperienza più comune dell’americano medio, difatti, era la paura di perdere il lavoro, per cui ha bisogno del doppiopetto, la famiglia, che gli fa portare la fede al dito, e tutto ciò che imbriglia la sua vita (Susan Faludi – Bastonati!).
La guerra era stato per loro un percorso di virilità, e la conquista dello Spazio era l’esempio che, presto, quel mondo sarebbe stato loro. Ma loro erano i prodotti di una società disgregata e consumistica, che aveva consumato i loro sogni e le loro stesse vite.
Ormai non rimaneva più nulla della promessa tecnologica. Nessun barlume di luce creata dall’uomo lampeggiava rassicurante nel cielo notturno. Il mondo che avevano servito e che credevano li rispettasse e portasse in palmo di mano, il mondo che in guerra avevano tanto difeso, non era che un immane inferno. La loro influenza diminuiva, sentivano di stare perdendo il controllo, come il posto di lavoro.
Anche se pochi uomini avrebbero fatto quello che Shawn Nelson fece una sera di primavera del 1995, molti sono in grado di comprenderlo. Ex militare la cui carriera come carrista nell’esercito si era dissolta, ex idraulico che aveva perso il posto e a cui avevano rubato gli attrezzi, ex marito la cui moglie se n’era andata, il trentacinquenne Shawn Nelson irruppe nell’armeria della Guardia nazionale, si impadronì di un carro armato M-60 da cinquantasette tonnellate e lo guidò per le strade di San Diego, schiacciando idranti, sfasciando quaranta macchine, abbattendo semafori e pali della luce sufficienti a far rimanere senza elettricità cinquemila persone. Era in guerra con quel mondo domestico che un tempo aveva creduto di dover costruire, servire, difendere, finché la realtà che conosceva si era capovolta (Susan Faludi – Bastonati!).
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