CRISI DELLA BORGHESIA E PROLETARIATO e MORTE DEL ROMANZO
Alcuni commentatori più o meno accreditati, sui giornali e in televisione, hanno, negli anni più recenti, imputato a una certa classe politica italiana di esser venuta fuori dal nulla e di non aver mai lavorato. Come potevano, dunque, occuparsi delle politiche del lavoro? Una domanda simile, un simile problema, se lo poneva, già a metà ‘800, il critico inglese John Ruskin, a proposito dei gentleman, degli uomini della borghesia inglese, a cui proponeva di passare qualche ora della propria giornata in lavori servili, per sviluppare una maggiore empatia verso il popolo, sperimentando su di sé le sue fatiche (John Ruskin – Turner e i preraffaelliti – Abscondita, 2019). Posizione che, venendo estremizzata, e portata a estreme conseguenze fisiche e morali, negli Anni ’30 del secolo scorso, fece sì che una giovane intellettuale del mondo borghese, Simone Weil, si facesse assumere in fabbrica per sperimentare sulla propria pelle la condizione operaia, senza ipocrisia e infingimenti intellettualistici. Il risultato che ne seguì, fu un rivoluzionario, e inaspettato (anche tragico), cambio di prospettiva nel rapporto tra intellettuali della borghesia e operai, ma questa prospettiva aprì una aporia insanabile, che nemmeno l’Opera illuminata di industriali come Adriano Olivetti, con tutta la loro buona volontà, riuscirono a sanare, facendola, forse, allargare maggiormente:
«La società attuale non fornisce, come mezzi di azione, altro che macchine per schiacciare l’umanità; quali che siano le intenzioni di quelli che le prendono in mano, queste macchine schiacciano e schiacceranno finché esisteranno», afferma la Weil (La condizione operaia).
All’amico Jules Romains, romanziere borghese che aveva scritto un romanzo sugli operai, la Weil risponde molto secca: «Benché io abbia ricevuto esattamente la Sua stessa formazione universitaria, capita che io sappia un poco cosa è una officina meccanica. Per quanto ampia sia l’intuizione di un romanziere, egli non può sentire tutto ugualmente bene, anche quando il romanziere è Lei». La differenza sta in definitiva tutta nell’impossibilità, per chi non ha una esperienza diretta del lavoro in fabbrica, di superare «l’illusione, tenacemente radicata in ogni borghese, di avere dei diritti», e quindi l’impossibilità di immaginare che la condizione operaia possa essere una forma di schiavitù: «Non c’è traccia di schiavitù in tutto il Suo romanzo» (Giancarlo Gaeta, in Simone Weil – La condizione Operaia – SE, 2003).
Il rapporto dell’intellettuale borghese con l’operaio, è stato da sempre un rapporto mitologizzante: è nato il mito, via via, del buon selvaggio, poi dell’onesto operaio (Jules Michelet), fino a quello dell’operaio-massa; da sempre, si tratta di un mito legato a una vita primitiva connotata da bisogni immediati e istintivi, alla materia, vissuta nel legame con la natura più rozza e primordiale (Renzo Paris – Il mito del proletariato nel romanzo italiano – Garzanti, 1977). Ce ne danno anche testimonianza i romanzi naturalistici francesi, o le teorie sull’igiene pubblica di filosofi positivisti come Paolo Mantegazza, legati a un momento doloroso per le classi più basse, quello della prima industrializzazione e della nascita delle fabbriche, con le ricadute sulla popolazione operaia di abitudini devastanti come l’alcoolismo e le più svariate devianze. Oggi, a duecento anni di distanza, si stanno per certi versi riproponendo quegli scenari, con un alcoolismo dilagante fra i giovani e l’emergere di devianze sociali e psicologiche rimaste inedite per lungo tempo. La crisi economica e la recente pandemia hanno scoperchiato le vulnerabilità nascoste nelle pieghe di una Società del benessere, che aveva fondato sulla produttività e la competitività i propri principali cardini, facendo del profitto l’unico orizzonte possibile. Caduto anche questo, l’Uomo post pandemia e post crisi si trova nudo e sperso, senza però una cultura e una cassetta degli attrezzi a livello spirituale che gli permetta di affrontare il grande disagio e gli interrogativi sempre più funesti sul proprio futuro. Per molti individui, la vita si è così ridotta a una ricerca di ruoli minimi con cui affrontare la pura e semplice sopravvivenza, menomando quelle parti più evolute e complesse della personalità che sono richieste dalla vita di relazione. Anche questo fattore contribuisce alla disgregazione sociale cui stiamo assistendo, con esiti sempre più preoccupanti, e all’emergere di patologie di relazione come la psicopatia, le perversioni, le condotte criminali.
La crisi che sta vivendo la borghesia, il proletarizzarsi del tessuto sociale, è un processo sventurato, che sta svuotando la Società di intellettualità e di influssi rivoluzionari. L’attacco mondialista alla classe media, ha anche lo scopo di cancellare la cultura e il sapere, in modo da giungere a una Società sempre più livellata e priva di spinte centripete. Il Potere, così, ottiene il raggiungimento di uno scopo di controllo sulle masse, reso facile dal poco grado di istruzione delle stesse, ovvero, masse sempre più governabili con il mezzo del ricatto e della paura, che non oppongono nessun dissenso, non accampano nessun diritto, non usano il cervello, ma si limitano a consumare il proprio stipendio e a pagare le tasse, votando alle urne di quando in quando. Un esercito proletarizzato, senza più la guida ideale di quegli intellettuali borghesi che, da sempre, hanno saputo armare ideologicamente ogni rivoluzione.
Abbiamo, a ragione, citato Jules Michelet, in quanto egli rappresenta l’ideale borghese ottocentesco dello scrittore impegnato sul fronte dei diritti e delle parità. Portavoce della borghesia, egli rappresentava una intellettualità rivoluzionaria, una nuova morale opposta a quella aristocratica. Il dramma borghese, allora, si stava disallineando dai canoni della tragedia, e diveniva araldo di una classe emergente, più prosaica e terrena, vicina ai problemi concreti. Nasceva la borghesia e la sua Arte, ma oggi, dopo due secoli, questo processo si sta involvendo, stiamo assistendo a un moto regressivo in cui una nuova aristocrazia sta prendendo il sopravvento sulla plebe, con cancellazione di tutto il tessuto intermedio. In questo processo, non ne risente solo l’economia, la politica, ma anche l’arte del romanzo, che oggi vede il prevalere di una nuova classe di scrittori, per così dire, venuti dal nulla, proletari ambiziosi affamati di successo, portatori non più di ideali borghesi/universali, ma prettamente utilitaristico/individuali. Così, ritorniamo al concetto del proletario quale portatore di valori legati a una vita primitiva connotata da bisogni immediati e istintivi, alla materia, vissuta nel legame con la natura più rozza e primordiale (Renzo Paris – Il mito del proletariato nel romanzo italiano – Garzanti, 1977), cui abbiamo accennato più sopra.