MILANO VACUA E CRIMINALE
Entrai al Bar Taveggia, luogo simbolo della mia giovinezza universitaria, uno di quei rari sacrari della tradizione e della vera eleganza sopravvissuti in una Milano vacua e criminale, ancora capace di comunicare la nobiltà della ricchezza senza l’eccesso e la chiassosità di questi nuovi ricchi, arroganti e ignoranti, che imperversano ormai nei templi del lusso sovrastimato del Centro città, Quadrilatero e Galleria, che si aggirano da padroni con aria stanca per Montenapoleone e Via Verri, con la stanchezza non del lavoratore, ma del padrone un po’ snervato che fa la guardia alla sua cassaforte, rivoltella alla mano, pronto ad abbaiare e mordere al primo segno di intrusione. Sì, perché i nuovi ricchi soffrono di una continua stanchezza mentale, sapendo di aver fatto fortuna in breve tempo con le stesse modalità di chi ruba, magari speculando e sfruttando i dipendenti, per cui, malgrado quella loro apparente calma padronale, la coscienza gli rimorde e non si sentono mai del tutto al sicuro. Soffrono della stessa cattiva coscienza del criminale, ne condividono il materialismo e l’ignoranza, la prepotenza e la maniera di esprimersi con lunghi silenzi cinici e meditativi, fatti di calcoli, ragionamenti su come evadere il fisco, su come far fruttare questo e quello, su come non farsi rubare ciò che hanno guadagnato rubando. Sono persone molto fragili, nonostante la loro apparente corazza, in quanto hanno completamente affidato la loro vita, i loro valori, le loro aspirazioni morali (immorali) a soli beni materiali, che non aggiungono nulla al loro Spirito, la cui perdita comporta il rischio della loro cancellazione come individui. Privi di vita interiore, si circondano solo di oggetti, oggetti costosi, e i loro ragionamenti intimi (la loro vita interiore) si riduce a quella di un guardiano che sorveglia una banca. Sono quelli che la letteratura ottocentesca chiamava spesso filistei, borghesi dalla mentalità ristretta e retriva, unicamente orientati all’accumulo di capitale economico. Qui al Bar Taveggia c’era la stessa atmosfera d’allora, atmosfera intatta di quegli anni. Le finiture in legno alle pareti, per il resto tinteggiate di bianco, e quel candore sobrio e aristocratico, delle tovaglie, massimo una quindicina di coperti, un luogo per pochi. Solo la clientela era cambiata. Non più silenziosa, composta. Ma vociante, a tratti chiassosa, tanto quanto l’abbigliamento, di questi nuovi ricchi. La chiusura delle acciaierie e delle industrie pesanti, qui a Milano, aveva significato il prevalere di questa gente molliccia, dedita al raggiro, perché ormai Milano era una città che produceva unicamente il superfluo. Era diventata la città dell’effimero, dell’inconsistenza fatta industria e visione del Mondo, visione sociale e politica. Milano era diventata una città vanesia, che si guardava continuamente allo specchio, che si faceva selfies, e non produceva più nulla, era un immenso cartellone pubblicitario, che pubblicizzava la pubblicità stessa. La cosa più grave era che il soldo, ormai virtuale, ben si adattava a finanziare l’industria del fasullo. L’industria dei sorrisi, dove tutto è smart, dalle macchine ai telefonini. Un mondo di furbi. Milano era una di quelle caramelle, a torciglioni, bianche e rosa, schiumose, grosse, che, appena le mettevi in bocca, si scioglievano, si sgonfiavano, completamente prive di sostanza. E di proprietà nutritive. Al limite, altamente tossiche. Piene di coloranti. Milano era una città dove tutti facevano quello che fan tutti. Una città dove non riconoscevi più la realtà dalla finzione. E qui vicino, c’era Via Cerva, una specie di vicolo ombroso e angusto, dove era vissuto il nonno di Luchino Visconti. A chi scrive, fa piacere pensare che anche Luchino venisse al limitrofo Bar Taveggia, nobile, non borghese arricchito. Altro lignaggio, altro rapporto con la ricchezza, non sbandierata, ma risorsa interiore, morale, una certezza che proveniva dai secoli passati, cui il nobile è tanto abituato, da non farvi più caso, da non farlo pesare a nessuno, con eleganza, quasi con umiltà. Ma cosa è la nobiltà, diversamente dall’arricchimento? La nobiltà è una condizione interiore, l’arricchimento, invece, è una condizione esteriore. La prima, non è suscettibile di essere sottratta a chi la possiede, la seconda, invece, è fonte di incertezze, in quanto effimera e volatile come ogni forma materiale. Ci troviamo su di un piano di diverso rapporto col Tempo, nel primo caso, con l’Eternità, nel secondo, con la provvisorietà. E’ proprio su questo piano, che si distinguono i valori metafisici delle due categorie, il nobile e il borghese, discendente della divinità, il primo, del potere materiale ed economico, il secondo. Il nobile ha molte più cose in comune col proletario, che non col borghese, in quanto la sua condizione di nobile prescinde dal capitale economico, che potrebbe non possedere, proprio come il proletario (ad esempio, nobiltà interiore del povero popolo napoletano). Se la cultura nobiliare si esprime col tono della tragedia, è invece nel tono della commedia o al limite del dramma che trova accoglienza la rappresentazione della vita borghese. I film di Luchino Visconti, sono difatti tutte delle tragedie, opere del Sublime (in un certo senso, lo sono anche i film di Totò).
E qui torniamo a Milano. Che, con la chiusura dell’industria pesante, delle acciaierie, con l’imborghesimento di Sesto San Giovanni e la scomparsa del dignitoso proletariato produttivo, ha perso il suo antico orizzonte metafisico, tragico e nobiliare, per convertirsi a una cultura decadente e molle, obliqua e borghese, nella quale con molta facilità si è infiltrata la cultura criminale, che con quella borghese condivide gli stessi valori materiali. Le due culture, ormai, a Milano si confondono e si sono a tal punto amalgamate, da non poter più capire, di fronte a una persona, se si tratti di un onesto o di un disonesto, non potendo più cogliere nel disonesto dei chiari segni distintivi che lo distinguono dall’onesto.
In altre parole, Milano, da roccaforte del lavoro, della produzione, della chiarezza contrattuale, della linearità economica, si è trasformata in una città assai ambigua, impalpabile, nella quale la ricchezza, quella esibita, è il più delle volte non tracciabile, e dove i piccoli esercizi commerciali in mano alla criminalità, non seguono più un progetto volto alla stabilità, ma, al contrario, al guadagno veloce, spesso illecito, con negozi che aprono e chiudono in tre mesi, senza lasciare tracce, allestiti con poco, poco investimento, fatti non per durare, ma per generare profitto immediato, cui segue puntualmente la fuga dei titolari, la trasformazione del negozio con conseguente riciclaggio di denaro sporco, e la dispersione di ogni traccia illecita.
Ci troviamo in uno scenario liquido, informe, privo di certezze, in una città che si sta disgregando e che non lascerà più alcuna traccia, che vive di presente e non avrà mai più un passato e una storia. Solo un futuro visto come possibilità di profitto, nella quale le azioni si autocancelleranno e non produrranno mai più un processo storico. Di fatto, Milano ormai è uscita dalla Storia. Ormai è un fenomeno visibile, alla luce del sole, Milano è governata dai fantasmi, è diventata una città dal profilo incerto, evanescente. Milano è la grande e incontrastata lavanderia dell’ndrangheta, che politica e magistratura non contrastano minimamente. Corrotta, violenta, sempre più miserabile, è anche una città che esibisce un culto vuoto dell’estetica paragonabile a quello delle peggiori sottoculture sudamericane. Non offre più niente, niente lavoro, niente servizi, niente sicurezza, ma tanto svago, eventi culturali inutili, azzardo, sesso. Le persone ancora mentalmente integre vi si aggirato rasente i muri, defilate, impaurite, sulle difensive, caute nel rispondere a uno sconosciuto che potrebbe tirare fuori il coltello. Qui a Milano, città simbolo di una situazione diffusa, non ci sono più tutele, lo Stato si è ritirato e l’unica arma di difesa, per chi ne ha ancora, sono i soldi. Solo coi soldi puoi in qualche modo fare scudo alla prepotenza (dello Stato) allo sfrenato liberismo, al crollo dei sindacati e di tutti quei valori un tempo legati alla persona, quindi alla mancanza diffusa di etica se non di giustizia. Senza più il benessere degli Anni’80, Milano cerca di rievocarne i fasti dello svago senza però la sana spensieratezza di quegli anni, aggiungendo allo sballo anche la cattiveria, il divertimento violento senza alcuna gioia. Questa città fa male a chi ci vive, o meglio, a chi, superati i trent’anni e conducendo una vita modesta, ne deve subire solo i lati peggiori. Tutti i giorni si vive una concentrazione di aspetti deleteri per la salute e il benessere fisico e psicologico, siamo in troppi, troppa gente, troppe macchine, troppa maleducazione, troppa roba inutile che piace giusto a chi scatta foto per Instagram e aderisce a quei modelli vacui. Milano non è una città concreta, non lo è più. Già da tempo ha rinunciato a offrire opportunità concrete a chi vi abita e vi si trasferisce. Molti scappano. Chi non può, per età avanzata e immobilismo lavorativo, vi rimane intrappolato, come in uno di quegli incubi che si fanno verso l’alba, che non ti mollano e ripetono la stessa scena sino al risveglio. Svegliarsi da questo incubo, però, è impossibile.
@@@
L’analisi – Gratteri: «A Milano comanda la ’ndrangheta: ha in mano tutti i supermercati dell’hinterland e i locali preferiti dai vip» – Notizie
Il procuratore di Napoli ha descritto le radici storiche del primato delle cosche calabresi: «Il salto di qualità avvenne nel 1969, quando si decise che un boss poteva entrare nella massoneria deviata»
di Redazione Cronaca