FLASH BACK SEVESO DANTE PORTA – racconto
L’ascolto di “Time” dei Pink Floyd, mi fa fare un salto netto a ritroso di 35 anni, a alcune immagini di Seveso.
Va a quelle serate a casa di Dante Porta, a Valmadrera, a quelle tavolate intorno a delle scodelle nepalesi piene di quella zuppa allo zenzero che il Dante aveva imparato a fare in Nepal.
Erano serate che si protraevano sino all’alba, sempre che l’indomani non si dovesse andare a scalare. Le scogliere calcaree che, a Valmadrera, avevano già la conformazione che anticipava quella delle vicine montagne della Grigna, del Resegone, del San Martino, ci vegliavano, nella notte, con la loro presenza, che il riverbero della Luna faceva intravvedere nella loro dolomitica verticalità. Era un primo assaggio, a pochi passi da Milano, di quello che ci aspettava: la Valsassina, e poi oltre, oltre il Legnone, la Valtellina, e la Bregaglia!
Ma in quelle serate, si facevano progetti, uno dei quali, mi avrebbe incluso da lì a pochi anni: un 7500 inviolato in Himalaya. Peccato che quella spedizione non si sia mai fatta, e peccato che, nello stesso anno, io avrei avuto l’Esame di Maturità. Credo comunque che il divieto dei miei genitori sarebbe arrivato, come era arrivato per le Dodici Cime, l’anno prima, in cordata col Dante Porta, nel gruppo dell’Adamello.
Bando alle malinconie per le cose non fatte. Del resto, un mio vecchio amico che insegnava in Statale, mi disse, quando mi vide malinconico per una donna: «Caro Andrea, le scopate migliori sono quelle che non abbiamo fatto.»
Disastro di Seveso è il nome con cui si ricorda l’incidente, avvenuto il 10 luglio 1976 nell’azienda ICMESA di Meda, che causò la fuoriuscita e la dispersione di una nube della diossina TCDD, una sostanza chimica fra le più tossiche. Wikipedia
Credo che, tra i progetti adolescenziali di Dante Porta, vi fosse incluso quello di diventare anche un grande fotografo.
Quando lo conobbi, lo era già a pieno titolo.
Dante Porta appartiene a quella schiera di alpinisti che, come Gaston Rébuffat, Reinhold Messner, Alessandro Gogna, Walter Bonatti, Dougal Haston, Peter Boardman, e molti altri, sono e sono stati dei provetti, talvolta grandi fotografi.
Posso solo dire che, a quei tempi, non c’era alpinista che non avesse con sé una reflex, o, nel fighissimo taschino della giaccavento, una Olympus Uovo
(eccellente macchina galileiana, molto ricercata per la qualità luminosa e unica del suo obiettivo, la usavano solo i fighi e gli esperti, una cosa per pochi). Io, che esperto non ero, e nemmeno figo, avevo una pesante e ingombrante Fujica reflex, la STX 1 N. Imparai a fare foto non per la volontà di diventare o sentirmi fotografo, ma per testimoniare la bellezza dei paesaggi, dei fiori, dei torrenti, e delle nostre salite. Ero ufficialmente il fotografo della cordata e, in quattro anni di alpinismo intensivo, io ricevetti forse solo tre scatti, che mi ritraggano in scalata.
Facevamo foto, in parete e sui sentieri, e poi ci ritrovavamo in quelle serate a casa del Dante, a vedere le nostre diapositive.
Dante era già un noto e apprezzato conferenziere. Sempre in anticipo sui tempi tecnologici. Io, imparai a casa sua la videoscrittura, con una macchina da scrivere che, prima di stampare su carta, ti permetteva di visualizzare lo scritto su un piccolo monitor, dandoti la possibilità di correggere il testo prima di stampare.
Al tempo stesso, Dante era dotato di una centralina che sincronizzava le colonne sonore – sempre prevalentemente Rock – alla proiezione delle diapositive.
Una sera, invece di farci vedere immagini di montagna, Dante tirò fuori dal cassetto la Conferenza sulla Tragedia di Seveso.
Era andato sul posto, a documentare quei giorni, quell’incubo alle porte di Milano – in una cittadina di nome Seveso e che i più non conoscevano – che anche qui in città vivemmo con profonda angoscia.
Mentre le chitarre ferrigne di TIME, terzo brano interno a The Dark Side of the Moon, dei Pink Floyd, e la cupa batteria, commentavano le immagini di uomini in tuta bianca, ermetica, come in certi inquietanti film di fantascienza, post nucleari, che si aggiravano fra villette disabitate, evacuate, giardinetti pubblici senza più bambini, capannoni vuoti, in una atmosfera sospesa e lugubre.
Ascoltare queste musiche, e rievocare quelle immagini, ha ora su di me un effetto quasi depersonalizzante. Avverto proprio la sensazione, ma più che altro la percezione, di essere in quel tempo, come se la Realtà del 2018, attorno a me, sia regredita di 35 anni. So che spegnendo questa musica, e dirottando i miei pensieri su altri contenuti, questo fenomeno svanirebbe. Ma io, come fossi uno sciamano, questa notte vado avanti, a tenermi le cuffie alle orecchie, in questa sorta di allucinazione controllata, che sono io stesso, con la mia Volontà, a generare. Credo che questo si chiami:
Flash back.
©, 2018
PIZZO BADILE
CAGARSI SOTTO
HEIMAT
BRUNO, LA VAL DI MELLO, LE MODE E IL TEMPO CHE FU
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